Una lettera a Mario Tronti, a commento de IL POPOLO PERDUTO (Nutrimenti, Roma 2019)
Interventi, 16 marzo 2019
Caro Mario,
perdonaci il tono confidenziale di questo incipit degli appunti di lettura che abbiamo steso dopo una approfondita discussione sul tuo ultimo libro di recente pubblicazione. D’altra parte questo testo per noi non è come altri che abbiamo recensito sul nostro sito negli ultimi mesi e men che meno il suo autore è uno fra tanti. Tu sei stato per noi “il maestro” che ci ha insegnato a leggere la società e la politica con occhi nuovi, da quel famoso “punto di vista” che solo può consentire di comprendere la totalità proprio perché è il punto di vista di una parte. E poi c’è un altro motivo che giustifica questa introduzione empatica e sta nella particolare intonazione emotiva che traspare da ogni pagina de Il popolo perduto, quel pathos e quella partecipazione con cui hai esposto la tua posizione e le tue amare considerazioni sulla situazione attuale.
Il titolo stesso del libro, d’altra parte, allude a una frattura, allo spezzarsi di un legame con qualcuno con cui si è vissuto una lunga, intensissima storia, un “qualcuno” collettivo che infine si è perso di vista, per ragioni oggettive ma anche soggettive. E proprio perché siamo in presenza di responsabilità soggettive, non possiamo che sentirci compartecipi di quella sorta di “autodafé” che hai voluto mettere per iscritto alle pagine 83 e 84 del tuo testo: “Dove ho sbagliato io insieme agli altri e a differenza di altri? Quella ricerca era tutta a livello di pensiero. Mi sono dedicato a un ‘che pensare?’ invece che applicarmi a un ‘che fare?’. Un errore intellettualistico. Per un intellettuale
totus politicus, quale io credo di essere, un errore imperdonabile. Dovevo fare più politica e meno cultura malgrado la enorme importanza che do, e ho sempre dato, a quest’ultima. (…) Il primato della politica non si può teorizzare senza praticare. Chi pensa la politica deve anche farla. E, viceversa, chi fa politica deve anche pensarla.”
Noi, nel nostro piccolo, ancora più di te, ci sentiamo corresponsabili di questo errore: ci siamo chiusi nella turris eburnea dell’“autonomia del teorico”, ci siamo dedicati per anni alla ricerca sulla “fine dell’eone cristiano”, trascurando volutamente ciò che avveniva sotto i nostri occhi, la fine del movimento operaio organizzato e, di conseguenza, una radicale metamorfosi della sostanza di ciò è “popolo”. D’altra parte, per quanto ci riguarda questo “errore intellettualistico” ha delle motivazioni oggettivamente fondate: fin dagli inizi degli anni ’90 ci appariva chiaro il dissolvimento di quel soggetto sociale e politico dal cui punto di vista avevamo fatto politica, e teoria, nei due decenni precedenti: la classe operaia della grande fabbrica aveva subito un processo di ristrutturazione negli anni ’80 che aveva finito per polverizzarla e quella unità politica che aveva espresso il potere operaio nel Novecento, l’URSS, era implosa e si era dissolta. Nel frattempo, anche grazie alla svolta del Partito comunista cinese negli anni ’80, il capitale internazionale portava a compimento quella operazione di appropriazione del mondo che va sotto il nome di globalizzazione. Insomma, fin dai primi anni ‘90, abbiamo avuto la netta sensazione di trovarci in un deserto senza oasi e allora ci siamo messi a studiare, a scavare nella sabbia per trovare un po’ d’acqua. Del resto, lo scrivi anche tu in questa tua ultima fatica: “Quando c’è il blocco dei fatti, non c’è che da ripartire dalle idee. E proprio le idee più folli a volte producono una pratica saggezza.” (p. 50)
Noi, purtroppo, di “pratica saggezza” ne abbiamo conseguita poca, ma di idee folli ne abbiamo scoperte parecchie e tutte, come tu sai, vanno sotto il titolo di “teologia politica”. E tuttavia, ci sentiamo responsabili, certamente, di un eccesso di astrattezza, del fatto di non aver saputo curvare quelle scoperte teoriche se non sul terreno della pratica, almeno su quel terreno della “battaglia delle idee” che è stato un tuo vessillo e che torni a invocare fin dalle prime pagine del libro, quando richiedi appunto “una rinnovata battaglia delle idee, con il dichiarato obiettivo di dare forma a un nuovo spirito egemonico di parte” (p. 10). Seppur molto tardivamente, forse è maturo il tempo in cui Epimeteo finalmente si decida a scendere su questo terreno. Ma su questo torneremo nella parte finale di questi appunti di lettura. Ora, dopo questa lunga introduzione, è venuto il momento di analizzare i punti salienti del tuo libro.
In primo luogo l’aggiustamento tattico che proponi, sul quale non possiamo che concordare, che si muove dalla presa d’atto di una frattura e della necessità di un rapido riposizionamento:
“C’è stato un arretramento politico di popolo. Lucidamente, occorre arretrare insieme ad esso, nella sensibilità ai bisogni e nella proposta dei rimedi. Un tale che se ne intendeva raccomandava: un passo indietro, due passi avanti. (…) Mi soccorre una massima che da tempo ho adottato come linea di condotta, che conosce bene chi mi conosce: pensare estremo, agire accorto. Nello specifico: sapere dove sta adesso popolo. E andare lì a riprenderlo da dove sta per farlo avanzare. Indicando qual è il nemico vero da combattere. Questa, non altro, è Politica.” (p. 109)
“Un arretramento politico di popolo”, determinato da una rottura che ha una dimensione oggettiva e un’altra, come ben sottolinei, soggettiva. Una frattura oggettiva tra popolo e classe, una soggettiva, tra popolo e ceto politico post-comunista, e qui lo sguardo si focalizza sull’Italia. Ci viene in aiuto a questo riguardo una formula molto antica: Senatus populusque, ossia, non c’è popolo senza aristocrazia. Tu lo dici con parole diverse, ma la sostanza è la stessa: “Non c’è vero popolo senza classi dirigenti e non ci sono vere classi dirigenti senza popolo.” (p. 89) Questo infatti è stato lo schema-base del movimento operaio organizzato nella sua bisecolare lotta dentro e contro il capitale: da un lato un’aristocrazia costituita insieme dalla classe operaia della grande fabbrica (operaio di mestiere prima, operaio-massa poi) e dai “rivoluzionari di professione” del Partito comunista; dall’altro lato le masse di popolo, contadini, piccoli artigiani, piccoli commercianti, insegnanti con i quali si costituiva una forte alleanza attraverso una fitta trama di associazioni sindacali, cooperativistiche, perfino ludiche. Quella correlazione tra masse e aristocrazia operaia (come classe e come ceto politico) dava forma al popolo in quanto “concetto politico”, in quanto “parte” dotata di un punto di vista antagonistico.
Quella correlazione è stata spezzata, innanzitutto per una impressionante ripresa di iniziativa politica del capitale, che a partire dagli anni ’80 ha operato una radicale ristrutturazione del potere in fabbrica, attraverso processi di innovazione tecnologica che intensificavano l’estrazione di plusvalore relativo, e, nello stesso tempo, metteva in atto una ridislocazione geopolitica degli investimenti manifatturieri che, in primo luogo con l’apertura della Cina di Deng Xiaoping, poteva utilizzare gli ancora ampi margini di sfruttamento dell’”esercito industriale di riserva” in Asia e, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nell’Europa orientale. Una volta disintegrata la centralità operaia, piano piano anche quella rete di forme di organizzazione popolare si è sfilacciata e infine è venuta meno. Ma in tal modo è venuta meno anche la dimensione politica di popolo: “Non c’è un popolo-tutto, c’è un popolo-parte. È il punto di vista di parte che fa del popolo un soggetto politico. Senza un punto di vista di parte, non c’è politicamente popolo.” (p. 94) Ma, e questa è una nostra posizione che ci piacerebbe discutere con te, il popolo “il punto di vista di parte” non è in grado di darselo da solo, un popolo non è immediatamente “concetto politico”, lo diviene solo nel rapporto con una
élite o una aristocrazia, con l’aristocrazia della spada prima e con la borghesia come ceto ideologico poi nella figura di “popolo-nazione”, con l’aristocrazia operaia nella figura di “popolo-società”: “Negli ultimi due secoli, popolo si è realizzato in due grandi forme di espressione: come popolo-nazione, nella figura dello Stato politico, come popolo-società, nella pratica della lotta di classe.” (p. 92)
Se dunque il popolo accede alla dimensione del politico solo nella relazione con “classi dirigenti”, la responsabilità soggettiva di ceto politico, in particolare nell’”anomalia italiana”, nella dissoluzione del “concetto politico di popolo” viene in primo piano, come emerge in modo chiarissimo da un lungo brano del tuo libro che val la pena di riportare per intero:
“Come e quando si è dissolto questo che abbiamo chiamato concetto-realtà? Non vale la risposta: quando quelle componenti popolari si sono oggettivamente dissolte nella società. Quelle componenti non sono morte di morte naturale. Si può scegliere se siano state uccise o se si siano suicidate. A mio parere, per ambedue insieme queste cose: oggettivamente uccise dal nuovo capitalismo, soggettivamente suicidate da una sinistra progressista e da un cattolicesimo democratico non all’altezza della sfida. Cioè, per un’operazione dall’alto, di sistema che ha così utilizzato il cambiamento di forma del capitalismo riguardo alla sua composizione sociale e per un cedimento dall’interno di esse, da parte delle rispettive rappresentanze politiche, riguardo al rinunciatario disarmo dei loro gruppi dirigenti. No, quella dissoluzione di popolo è avvenuta contemporaneamente e contestualmente al dissolversi dell’idea e della pratica di classe.” (pp. 98-99) Ora, dal momento che è difficile imputare al “cattolicesimo democratico” il “dissolversi dell’idea e della pratica di classe”, è evidente che qui viene preso di mira non tanto “la sinistra progressista”, quanto il gruppo dirigente che in Italia ha guidato la transizione nel post-comunismo: “(…) il principale imputato da mettere sul banco degli accusati è uno solo: proprio il ceto politico post-comunista.” (p. 63) E il capo di imputazione principale è il fatto di non aver saputo mantenere viva la memoria e l’”eredità” delle lotte, una memoria che doveva costituire la premessa imprescindibile per ripensare cultura politica e forme di organizzazione nella transizione al capitalismo post-industriale globalizzato:
“Il presupposto indispensabile, colpevolmente mancato, era una dirigenza politica che assumesse su di sé l’eredità storica del movimento operaio e popolare. Sono arrivato a pensare dopo lunga riflessione che questa omissione di intervento sia die Schuld – termine usato recentemente per indicare insieme la colpa e il debito – del ceto politico post-comunista.” (p. 22)
Da qui, da questa collettiva rimozione della “tradizione”, intenzionalmente perseguita da quel gruppo dirigente, è venuto tutto il resto: innanzitutto il dilagare tra le nostre fila di una “mentalità culturale democratico-progressista” che non sapeva più cogliere le linee di frattura nella società, presumendo di poter armonizzare i rapporti sociali sulla base di una qualche visione immaginifica della comunicazione, dei valori e dei diritti, una mentalità che infine “non ha più capito il popolo (…) perché quella cultura non è di popolo, è di élite.” (p. p. 75) Da quella cultura politica, da quello “scivolamento liberaldemocratico” (p. 78) non potevano che derivare conseguenze letali sul piano dell’organizzazione, del radicamento territoriale e sociale, insomma sulla forma-partito, che ormai si è trasformata, nell’intera sinistra europea, nell’organizzazione discontinua di un mero cartello elettorale esclusivamente in funzione della conquista del governo, trascurando la difesa degli interessi della nostra parte, fino a dare la netta impressione che “il soggetto politico vero e proprio fosse ormai il governo al posto del partito” (p. 69). Dunque, la crisi della tradizione, della cultura politica, e la crisi dell’organizzazione, sommate insieme, hanno infine condotto a una crisi verticale della sinistra nel suo insieme, una crisi che si traduce in qualcosa di molto più profondo che una perdita di consenso elettorale: “La parola ‘sinistra’, ripeto, oggi ha perso di senso. Non dice più. Non parla più. (…) Sinistra è diventata una posizione pratica da pensiero debole.” (p. 129) Ecco la frase chiave: non abbiamo perso solo un popolo, abbiamo perso la capacità di produrre senso.
Insomma, come vedi, sia sul piano della diagnosi che su quello della proposta politica di breve-medio periodo, cioè sul piano della tattica, concordiamo sostanzialmente con le tue posizioni; rielaborare memoria, ricostruire un “asse programmatico indispensabile per rifare popolo, raccordando e riequilibrando una cultura dei diritti con un’azione sui bisogni” (p. 131), ridefinire forme di organizzazione che riaffermino “la centralità del conflitto di lavoro” (ibidem).
Nello stesso tempo, inguaribilmente, ma anche riallacciandoci a ciò che tu stesso scrivi (“senza un rivolgimento nella cultura politica dell’attuale sinistra, tutta intera, nulla avverrà” p. 73), riteniamo indispensabile una ricerca teorica di più lungo periodo che si interroghi sulle ragioni di fondo della sconfitta e tenti di delineare una proposta di cultura politica che sia in grado di reggere lo scontro non per i prossimi anni, ma per i prossimi decenni (non dimenticando la fulminante battuta di Giorgio Ruffolo sulla fine del capitalismo…). E dunque, “agire accorto”, ma anche “pensare estremo”. E nel far questo ci colleghiamo a un problema che tu hai ben messo a fuoco e che, a nostro parere, costituisce il problema dei problemi; ci riferiamo a quanto tu scrivi a proposito di “un avvenuto mutamento genetico di popolo, rispetto a quel concetto socio-politico, che il Moderno ci aveva consegnato” (p. 92), oppure a quel motto della Thatcher che tu richiami: “non c’è società, ci sono solo individui” (p. 99), a cui fai seguire delle importanti osservazioni che riteniamo di dover riportare per intero:
“Il non aver colto questo passaggio come il grido di battaglia di una nuova stagione di lotte sociali e di mobilitazione popolare, anzi aver addirittura civettato con la novità di questo individualismo possessivo, illusorio portatore di magnifiche opportunità per tutti, è stato il vero punto di chiusura per ogni possibilità e praticabilità di una trasformazione di mondi e di vite. Quando si dice forme di mondo, forme di vita, sembra che si salga nell’astratto, in realtà bisogna capire che, a proposito di popolo, così si scende nel concreto. Perché lì il concreto, in politica, è il vissuto. [il corsivo è nel testo]” (ibidem)
Insomma, quello che, a nostro parere, traspare da queste tue parole, dal vago sapore husserliano, è il nodo che ci troviamo di fronte, dopo la svolta del capitalismo degli ultimi decenni del XX secolo e di questi primi del XXI: il “mutamento genetico di popolo” a nostro avviso deve essere letto come “metamorfosi antropologica”, perché questo è il terreno sul quale il capitale ci ha sconfitti, non solo quello dell’efficienza economica (la schiacciante superiorità del sistema americano su quello sovietico), oppure quello dei diritti garantiti dalla liberaldemocrazia. No, la sconfitta è più profonda e per questo la reazione è così difficile, perché la sconfitta si è consumata sul terreno del “vissuto”, sul piano antropologico della concezione dell’uomo e del senso dell’esistere: l’uomo che si afferma con il nuovo “ordoliberismo” è l’individuo autoreferenziale che lotta, da solo, per affermarsi in un mondo che è mercato globale, l’individuo che lotta per poter lavorare, che lavora per comprare, che compra per consumare, che consuma per godere: questo è il “sentire comune” della contemporaneità, questo edonismo narcisistico, questa ingiunzione al godimento è l’imperativo categorico dominante. Insomma, la svolta dell’ultimo capitalismo non è soltanto innovazione e globalizzazione, è sussunzione non soltanto del lavoro vivo come consumo della forza-lavoro, ma dell’intera esistenza come consumo di merci e come mercificazione di ogni aspetto dell’esistere. La figura mitica del moderno non è più Prometeo, è Narciso.
Ecco allora che il terreno privilegiato di scontro, nella “battaglia delle idee”, diviene l’antropologia. Del resto lo dichiari implicitamente tu stesso, quando scrivi della necessità di un “salto da individuo a persona”:
“C’è un’eticità nel sentirsi parte di una collettività. Superare se stesso, il proprio essere individuo potenzialmente possessivo, entro una forma economico-sociale che tende, spinge, costringe, e quindi perfino educa, a fare ciascuno il suo proprio singolo interesse, ecco quell’autosuperamento è il realizzarsi dell’oltre-uomo di cui parlava Nietzsche. È il passaggio, il salto, da individuo a persona. In politica è essenziale.” (p. 137)
Benché non siamo sicuri che l’Übermensch nicciano sia interpretabile nella direzione che tu indichi, certamente la persona rappresenta l’”oltre” dell’individuo, un “oltre”, però, che implica un “salto” dal piano dell’immanenza a quello della trascendenza. Infatti la nozione di “persona” non è così all’acqua di rose come potrebbe far pensare il fatto che ormai anche i pubblicitari se ne sono appropriati. Come è noto, la radice di tale nozione sta in un concetto di dio che è uno in tre “persone”, in cui dunque la “persona” è imprescindibilmente “relazione sostanziale” con le altre; da qui ha origine quell’antropologia teologica che pensa l’uomo a immagine e somiglianza di un dio che è relazione interpersonale. Ecco, la nostra linea di ricerca più recente si orienta verso una antropologia teologico-politica, che è teologica perché si radica nel trascendente, ed è politica perché pensa la persona creaturale come l’essere gettato nella decisione sull’amico/nemico, ossia pensa “il politico” come una sorta di “esistenziale” che contrassegna l’essere umano non solo nella direzione della socievolezza (lo zoon politikon), ma soprattutto nella direzione della decisione sull’associazione e la dissociazione. Insomma, la persona come “vocazione”, vocazione dall’alto alla relazione interpersonale e vocazione al “politico”. Nell’ultima pagina della tua “confessione”, scrivi: “La politica in generale ha l’assoluto bisogno di reimmergersi nel vissuto delle persone. Solo così potrà rigenerarsi.” (p. 140)
A nostro parere, questa reimmersione, nella pratica, non potrà avvenire senza un’anticipazione teorica: si tratta di tirare un filo, innanzitutto nel pensiero, tra il legame interpersonale (sul quale tanto hanno da insegnarci le donne), il legame sociale e il legame politico. Su questa base si potranno ripensare a fondo le forme dell’organizzazione, la qualità del ceto politico, le modalità della sua selezione e infine, pronunciamola pure l’altra parola inflazionata e ormai quasi insignificante come la parola “persona”, la forma dell’”istituzione” del politico.
E a questo proposito, l’Europa. L’Europa come “grande spazio personalistico”, perché è almeno da un paio di secoli che la politica non è se non è Weltpolitik e la Weltpolitik esige dei soggetti che abbiano la dimensione del “grande spazio”: “Dopo lo Stato-nazione, non solo si intravedono, ma entrano decisamente in campo geopolitico tra America e Asia Stati-continenti. Può l’Europa permettersi di non salire a questa altezza di presenza del mondo?” (p. 43) L’Europa come “grande spazio”, soggetto di Weltpolitik, ciò che il nostro continente non è più da settant’anni dopo essere stata per due secoli il centro del mondo; ma soprattutto l’Europa come “grande spazio personalistico”, perché solo in Europa la nozione teologico-politica di persona ha messo radici, è cresciuta e si è sviluppata in termini di auctoritas, di “principio di autorità”, un’altra parola ostracizzata, che tu però hai ancora il coraggio di pronunciare: “Ho scritto che a un certo punto decisi di iscrivermi alla scuola del realismo politico. La frequentazione razionale (…) del pensiero grande conservatore mi ha insegnato più cose che il biascicare quotidiano della religione progressista. Ne viene fuori un pensiero del conflitto, sempre civilizzato, un pensiero della forza ben distinta dalla violenza, un pensiero che fa critica della prassi di potere in nome di un principio di autorità.” (p. 136)
Da qui l’urgenza di una antropologia teologico-politica della persona come fondamento (un’altra parola impronunciabile) di una identità culturale europea da porre alla base dell’istituzione politica unitaria (e, ovviamente, federale) dell’Europa, un’identità che si differenzi dal liberal-nichilismo dell’individuo autoreferenziale americano, il
self made man che si identifica con il suo
self interest, e dal nichilismo allo stato puro della tecnica che avanza a grandi falcate da Oriente.
Europa e persona: certo, questo che ti abbiamo illustrato in estrema sintesi è solo un abbozzo di progetto di ricerca teorica, che tuttavia ha già alle spalle un’elaborazione bimillenaria, da cui ci si può abbeverare come da una fonte inesauribile (le famose “radici cristiane dell’Europa”, p. 38). È su questo embrione di ricerca che vorremmo confrontarci con te al più presto. Non senza aver segnalato l’ultimo punto di accordo, quello sulla tua esortazione conclusiva: “Consiglio allora un doppio movimento: moderare il pessimismo dell’intelligenza, radicalizzare l’ottimismo della volontà.” (p. 139) “Volontà” di ricerca teorica, naturalmente, “volontà” di “pensare estremo”…