Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico

L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)

Appunti di lettura su LA CRUNA DELL’EGO di Pierangelo Sequeri (Vita e Pensiero, Milano 2017)
Interventi, 18 febbraio 2019

Antropologia della tarda modernità: da Prometeo a Narciso

    È difficile sopravvalutare la profondità dello sguardo, intrecciata a una forte compartecipazione affettiva, che si esprime in questo breve ma densissimo testo di Sequeri, che mette capo innanzitutto ad una acuta delineazione della condizione antropologica della tarda modernità, oltre che proporre importanti elaborazioni teoriche in rapporto alla legittimazione etica e politica del “legame sociale”.
Il teologo milanese individua il contrassegno fondamentale della soggettività, così come attualmente si configura, nella “metamorfosi della libertà dei moderni nella costellazione narcisistica dell’auto-realizzazione” (p. 13). Il passaggio dall’ingiunzione all’auto-realizzazione, di per sé giustificabile, alla incurvatura narcisistica dell’auto-referenzialità si è dato secondo Sequeri con l’immanentizzazione del “seme evangelico” (ibidem), che ha il suo radicamento nell’agape divina e che è germogliato nelle acquisizioni irrinunciabili della civiltà europea in termini di “dignità della persona, principio dell’auto-determinazione, diritto al riconoscimento, ricerca dell’identità”. (ibidem) Come si vede, si tratta della costellazione giuridica dei “diritti dell’uomo” come si sono delineati a partire dall’illuminismo. Il passaggio alla declinazione narcisistica di tali inalienabili diritti è stato determinato dal loro sradicamento dal fondamento trascendente, e con questa diagnosi Epimeteo non può che concordare pienamente:
    “La versione immanente dell’auto-realizzazione umana, tuttavia, che mira a sradicarla dall’alterità della generazione divina in cui è creata sin da prima della creazione del mondo (l’incarnazione del Figlio), ha incominciato a svuotarla dall’interno: il soggetto che si nutre di sé consuma il mondo e si consuma in tutte le sue relazioni. La semantica dell’auto-realizzazione si è trovata così disponibile a servire la pulsione dell’autoreferenzialità narcisistica.” (pp. 13 – 14)
“Immanentizzazione”, dunque, come categoria decisiva per comprendere la genesi dell’autoreferenzialità moderna, la quale comunque, sia detto per inciso, non contrassegna solo l’individuo, ma anche i sistemi sociali funzionalmente differenziati, così come li intende, per esempio, il funzionalismo sistemico di Luhmann, nel quale i concetti di autopoiesis e di autoriproduzione autoreferenziale del sistema nel rapporto con l’ambiente hanno un ruolo costitutivo. Ma su questo decisivo processo dell’immanentizzazione si tornerà nel seguito di questi appunti di lettura.
    Sul piano della mitologia della modernità il passaggio dall’autorealizzazione all’autoreferenzialità si presenta come una traslatio imperii dalla figura del Prometeo marxiano e nicciano al Narciso incarnato dall’Unico di Stirner: infatti, mentre il primo “annuncia la decostruzione della religione” (p. 11), ma almeno si definisce pur sempre come portatore di una liberazione per altri, gli umani, il secondo al contrario “annuncia la decostruzione della società” (ibidem), rinserrandosi nell’autosufficienza dell’Io che ha riposto la sua causa nel nulla e in tal modo collocandosi in una posizione meramente parassitaria e corrosiva del “legame sociale”.
Sul terreno filosofico, Sequeri rintraccia l’approdo a Narciso nel passaggio da Nietzsche a Bataille, dal momento che, mentre “l’obiettivo di Nietzsche è il riscatto dell’ordine vitale delle affezioni” (p. 9), al contrario quello di Bataille “è il grado zero dell’affettivo” (p. 10). “Anaffettività” si rivela dunque come parola-chiave del narcisismo contemporaneo e nel filosofo francese tale atteggiamento di fondo si determina a partire dal tentativo di sfuggire al “lavoro della morte” che gode dell’angoscia e della disillusione del desiderio: per aggirare tale impasse, un io già predeterminato dall’essere-per-la-morte heideggeriano presume di potergli andare incontro, di assumerlo su di sé e quindi di reinterpretare la sessualità, come vertice del godimento, in termini sado-erotici, per cui “il fascino della sessualità estrema e quello della tortura raffinata sono luoghi emblematici, (..), di questa per-versione del lavoro della morte, dirottato a vantaggio di una sorta di mistica razionale del godimento proprio.” (p. 9) In tal modo, però, l’anaffettività finisce per disvelare, al di sotto di un’apparenza asettica, il suo carattere aggressivo e distruttivo, il suo risentimento di fondo, che contagia il legame sociale, si diffonde epidemicamente e finisce per esprimersi esemplarmente nelle giovani generazioni come “accanimento anaffettivo del branco sul clochard indifeso, sul compagno handicappato, sull’adolescente stuprata, sulla vittima designata dai social.” (p. 12)
    Ma in questa fenomenologia della violenza quotidiana anaffettiva, in cui non si rintraccia più nemmeno il sentimento dell’odio, ma solo l’indifferenza verso l’altro vittimizzato, secondo Sequeri è possibile rintracciare l’esito estremo della nicciana “volontà di potenza”:
“Bataille, eseguendo più coerentemente di Nietzsche, annuncerà la depurazione del carattere epico e romantico della volontà di potenza. (…) Bataille è la profezia dell’esercizio della potenza di eros nel godimento stesso del suo carattere distruttivo [tutti i corsivi delle citazioni sono nel testo]. La potenza va trasformata in ‘gioco’ e in ‘riso’, per beffare la pretesa assolutezza del ‘lavoro’ e del ‘lutto’ della morte. Il consumo e il dispendio – dal canto loro – sono precisamente la forma della sprezzatura della potenza erotica nei confronti dei toni alti e mistici dell’assoluto affettivo (è questo il ‘sacro’ del ‘sacrificio’, nella sua forma radicalmente a-teologica).” (p. 25)
    In tal modo si annuncia lo snodo affrontato nell’ultimo capitolo del testo (L’età secolare esposta al sacro), quell’”ambivalenza del sacro” che riveste una particolare importanza nell’economia del discorso di Sequeri.
“Ambivalenza del sacro” e “città-mercato” globale
    Decisive risultano a questo riguardo le distinzioni e le riconnessioni operate dal teologo milanese tra le nozioni di sacro / profano / religioso / divino: “Il sacro non è il puro opposto del profano e non va semplicemente risolto nell’ambito del divino.” (p. 133) Semmai il sacro, “la cui forma suprema è un fato imperscrutabile (eimarmene), legge e arbitrio al tempo stesso, necessità e ingovernabilità” (p. 129), sembra configurarsi quasi come una dimensione pulsionale-vitalistica che antecede il religioso e che chiede di essere messa in forma da parte di un’istanza autorevole ad essa sovraordinata:
“La religione attinge sempre alle forze del sacro: e di lì trae anche la forza di fronteggiarlo. Questo paradosso, bello e terribile, invoca la ‘rivelazione’ di un Dio ‘affidabile’, che manifesti la sua signoria sul sacro indicando simultaneamente la verità – la rettitudine e il limite – della mediazione religiosa della salvezza che deve essere cercato in esso oltre la sua ambivalenza umanamente intrascendibile.” (pp. 128 – 129 in nota 6)
    Questa “ambivalenza intrascendibile” dipende appunto dal fatto che il sacro si colloca in una posizione fontale sia rispetto al religioso che all’irreligioso e dunque quest’ultimo non può sottrarsi all’“ingiunzione del sacro”, quand’anche si sottraesse alla “signoria” del divino. Da qui deriva “l’ipotesi della capacità dell’ambivalenza del sacro di convivere – e di pervertirsi – con la secolarizzazione e con l’irreligione, e persino con la profanazione”. (p. 134)
Da questo punto di vista, allora, è aperta la via per una sacralizzazione feticistica della merce nella “città-mercato” globale: “Nella città-mercato, il sacro, senza mediazione ‘del dio’ affidabile, dilaga selvaggiamente fra gli idoli e attira devozioni da quattro soldi, genera perversione del pathos e corruzione del logos, nutre indiscriminatamente il nomos e l’anomia della città.” (p. 137)
    Questo processo di sacralizzazione del mercato, tuttavia, non avviene spontaneamente, come fosse guidato dall’eimarmene di una “mano invisibile”, ma è consapevolmente diretto, con modalità sistemiche: “Nella moderna città-mercato, il management si candida a essere l’icona del mediatore che indirizza – e attrae – l’atteggiamento dell’adorazione, rivolto al misterioso fondamento di ogni estetica della singolarità (la vita riuscita) e di ogni erotica dei potenziali (la vitalità infinita). (…) I luoghi dell’adorazione, in cui si comunica la percezione degli arcana imperii di un motore immobile perfettamente immanente, che muove il mondo os eromenon, sono i luoghi alti ed esclusivi del potere tecnocratico.” (p. 139)
In tal modo l’autoreferenzialità dell’individuo-Narciso e quella del sistema globale si saldano indissolubilmente, in un intreccio in cui, come è ovvio, la posizione dell’individuo è assolutamente subalterna ed “esposta” senza difese al potere di simbolizzazione estetica del sistema della comunicazione, in cui si dà quella “spot-revelation” (p. 107) attraverso la quale viene miniaturizzata, fino al limite del subliminale, la trasmissione del messaggio dell’ingiunzione al godimento e alla felicità. In questa interconnessione tra individuo e sistema si istituisce dunque “la regia del blocco tecnico-economico, che deve a tutti i costi evitare fenomeni di ricomposizione sociale che non siano strettamente funzionali alla riproduzione del capitale e all’omologazione del consumo di massa.” (pp. 111 – 112)
    Non deve perciò stupire se, a partire da questa diagnosi antropologica e sociologica sulla tarda modernità, Sequeri possa giungere ad una conclusione di estrema radicalità, per quanto espressa prudentemente in forma ancora ipotetica:
“L’ipotesi che sta sullo sfondo di questi saggi è radicata nella convinzione della necessità di rovesciare il tavolo del soggetto moderno.” (p. 15)
    Le “istituzioni dell’umano”
Per rendere plausibile la possibilità di tale rovesciamento, Sequeri si affida alla nozione di “istituzioni dell’umano”, ossia di quelle strutture della convivenza sociale caratterizzate dalla loro lunga durata, che garantisce la continuità dell’esistenza umana al di là dei mutamenti e delle fratture epocali: si tratta dunque del linguaggio, del diritto e della politica, dell’educazione, dell’economia e delle tecniche e dell’intero “ordine degli affetti” nelle sue varie articolazioni, dall’amore erotico alle reti amicali. Esse da un lato rappresentano imprescindibili “ordinamenti dell’interindividualità del senso” (p. 52), ma nello stesso tempo sembrano essere “l’elemento sistematicamente più trascurato nell’immaginazione teologica e politica di una via d’uscita dall’attuale percezione della prevaricazione delle tecniche sull’anima”. (p. 53) Secondo l’autore, è solo attraverso la riconnessione con queste istituzioni che la politica potrà conoscere una rivitalizzazione del suo ruolo e tentare di uscire dalla sua attuale “patetica condizione di ancillarità” (p. 51) nei confronti dei poteri economici e tecnocratici.
    All’interno di questo discorso, assume un particolare rilievo lo snodo del diritto e a questo proposito l’argomentazione di Sequeri si dimostra efficacemente persuasiva nell’attaccare quell’impostazione teorica che sostiene la neutralità procedurale del diritto rispetto a presupposti etici, in particolare quando entrano in gioco problemi di diritto pubblico che attengono la legittimità del potere politico, ossia il weberiano “monopolio della violenza legittima”. Da questo punto di vista Sequeri mette in evidenza come l’uso della forza si può considerare legittimo solo se giustificato dalla valenza etica del bene che la forza intende tutelare: “Il diritto preleva dalla coscienza etica, nell’orizzonte di un determinato ethos storico, parti dell’obbligazione morale che appare (socialmente, culturalmente) giustificato porre anche sotto la tutela (sostegno e interdizione) del potere pubblico (di coercizione, di sanzione): inclusivo dell’uso legittimo della forza. (…) Il fatto che questo profilo del diritto sia sottaciuto e rimosso, in favore di un più asettico e formale calcolo delle sue funzioni notarili, non può evitare che il dispositivo giuridico rimanga operante (nel bene e nel male) come mediatore di eticità e di senso.” (pp. 68 – 69)
In secondo luogo, l’analisi di Sequeri si rivela preziosa nella decostruzione della presunta “avalutatività” procedurale della concezione del diritto nella modernità, portando in primo piano la funzione fondativa e legittimante del “self interest come principio sacro dell’umano che è rigorosamente comune, e pertanto come presupposto trascendente e fondamento di legittimità per ogni possibile ingiunzione a riguardo della giustizia”. (p. 77) In tal modo, la difesa della libertà e dei diritti individuali rispetto ai vincoli di qualsivoglia etica pubblica finisce per rivelare il sotterraneo “dovere morale” che la sostiene e la legittima: “Nell’universo occidentale odierno (e nella sua versione globalizzata) l’accrescimento della ‘potenza’ individuale è narrata come un dover essere che ha ormai assunto i contorni dell’ingiunzione ‘etica’ al godimento (…). Il poter essere di accrescimento della potenza è raffigurato come virtualmente illimitato, grazie allo sviluppo della tecnica, dalla quale l’economia è in grado di trarre il massimo profitto.” (p. 75)
    Insomma, il diritto ai diritti ha finito per trasformarsi nel dovere dell’autorealizzazione edonistica autoreferenziale, radicata nella sacralità della merce e del suo godimento. Di fronte a questo esito della dinamica di legittimazione della libertà e dei diritti dell’individuo, Sequeri propone l’alternativa della “rivoluzione cristologica del sacro” (p. 79), ossia di quella radicale trasformazione del fondamento sacrale del diritto che si dà quando il comandamento di amare Dio si traduce nel comandamento di amare il prossimo; in tal modo il cristianesimo “ha messo la giustizia di Dio alla prova della cura del legame umano. (…) Il messianismo del Figlio, che incarna e rivela la giustizia di Dio, si compie nel messianismo di agape, che istituisce il giudizio ultimo di Dio proprio nello svelamento e nel compimento della perfetta sovrapposizione del ‘prossimo’ con il ‘Figlio’.” (ibidem) È proprio a partire dalla parola-chiave “messianismo” che si vogliono ora sviluppare alcune osservazioni conclusive sul testo di Sequeri.
Genesi della soggettività moderna e messianismo
    Hans Blumenberg, nella sua opera del 1966 titolata La legittimità dell’età moderna, ha sostenuto che tale legittimità deve essere individuata nella nozione di “autoaffermazione dell’uomo”, contrapponendosi alla nota tesi di Karl Löwith sulla modernità come “secolarizzazione” del cristianesimo, una interpretazione che rintracciava nella filosofia moderna del progresso una “secolarizzazione” della teologia cristiana della storia della salvezza. Con la contrapposta tesi dell’”autoaffermazione dell’umano”, un’espressione che presenta una evidente affinità con le nozioni di “autorealizzazione” e “autoreferenzialità” del soggetto moderno illustrate da Sequeri, a Blumenberg premeva negare ogni tipo di derivazione genetica della modernità dal cristianesimo e affermarne al contrario l’autonomia, anzi la netta contrapposizione della modernità, innanzitutto in quanto razionalità scientifica, rispetto all’”assolutismo teologico” dell’età medioevale.
Rispetto a questo contesto di problemi, Epimeteo si muove lungo una ipotesi di ricerca che radicalizza la tesi della secolarizzazione e interpreta la modernità come messianismo immanentizzato, considerando l’autoaffermazione dell’umano solo come compimento finale di quel processo di immantizzazione. Come è noto, il messianismo ha la sua origine nell’ebraismo pre-cristiano e il suo contenuto, in estrema sintesi, può essere riassunto come desiderio del Regno della giustizia e della sovrabbondanza di Dio, la basileia tou Theou, quella condizione escatologica in cui “il leone giacerà con l’agnello” e “scorreranno fiumi di latte e miele”. La nascita della Chiesa-istituzione non può certo essere interpretata come un venir meno di tale desiderio, quanto piuttosto come una sua “messa in forma” estremamente complessa, basata sullo schema temporale del “già” e “non-ancora” e su una struttura gerarchica che traduceva l’evento escatologico dell’incarnazione passione, morte e resurrezione del Figlio nella sua rappresentazione sacramentale e sacerdotale. In tal modo l’istituzione ecclesiale poteva mediare il desiderio del Regno, e il suo potenziale radicalmente sovversivo e anti-mondano, verso l’incontro con l’istituzione imperiale romana e successivamente gestire il trauma epocale delle migrazioni dei germani e infine quella traslatio imperii che sfociava nella rifondazione dell’istituzione imperiale nel Sacrum Imperium. In tal modo la basileia tou Theou “si faceva mondo” nella res publica christiana e nello spazio europeo governato dal coordinamento tra auctoritas ecclesiale e potestas imperiale; tuttavia, questo “farsi mondo” non si trasformava in una mondanizzazione perché l’istituzione ecclesiale teneva ben fermo il “non-ancora” della “riserva escatologica” e riaffermava la dimensione della trascendenza divina attraverso quella metafisica dell’analogia entis che impediva di tradurre l’incorporazione della carne nel Corpus Christi mysticum in una divinizzazione dell’umano.
    Questa architettura teologico-politica andava in crisi perlomeno a partire dalla “lotta per le investiture” e finiva in pezzi con la Riforma protestante e con l’apertura degli oceani e la scoperta del Nuovo Mondo. La Riforma, con la sua affermazione della libertà del cristiano e del sacerdozio universale, faceva completamente saltare la mediazione ecclesiale tra la coscienza credente e l’esperienza del dio salvatore; in Thomas Müntzer, in particolare, e nella sua dottrina dell’inabitazione del Cristo e della sua rivelazione interiore nella coscienza credente, anche il dato oggettivo ed esteriore della Scrittura, ancora riaffermato da Lutero, diveniva superfluo e in ciò il teologo tedesco non faceva che proseguire la linea spiritualista già inaugurata da Gioacchino da Fiore nel XII secolo. Tuttavia, in Müntzer la rivelazione interiore si esteriorizzava necessariamente nell’esigenza della realizzazione immediata nel mondo del Regno della giustizia di Dio: la sua presenza sul campo di battaglia di Frankenhausen alla guida della rivolta dei contadini è stata l’estrema testimonianza di questa volontà dell’attualizzazione del Regno. Ma questa esigenza della realizzazione intra-mondana della basileia di Dio si può scorgere anche in molti settori del calvinismo e del puritanesimo, che ancora nel XVII secolo in Inghilterra poteva dar vita a quella New Model Army di Cromwell che avrebbe condotto alla vittoria, seppur effimera, il radicalismo teologico-politico messianico. La Riforma protestante dunque non è stata solo genericamente una rivoluzione religiosa, ma ha liberato lo spazio per il riemergere impetuoso del desiderio dell’immediata attualizzazione del Regno che è stata una delle concause decisive nello scatenamento delle guerre di religione del XVI e XVII secolo. Sequeri, nella sua analisi della “città-mercato” e del “politeismo tollerante dei mediatori simbolici del godimento, pluralisticamente in competizione fra loro e alleati nella censura di ogni parvenza monoteistica del senso” (p. 138, in nota 21), ha acutamente messo in evidenza che “un vero politeismo, (…), nell’accezione di questa metafora (che fa il verso a Max Weber) non è affatto sinonimo di tolleranza: al contrario, moltiplica esponenzialmente i fuochi della guerra di religione: ognuno di noi è ‘dio’ a se stesso, ogni altro è virtualmente ‘ateo’ nei nostri confronti.” (ibidem) A questo riguardo, si può osservare che questo fenomeno della tarda modernità è stato anticipato di alcuni secoli in dimensioni collettive: con la Riforma protestante e con la fine del monopolio ecclesiale della rappresentazione sacramentale del Regno, si è assistito ad una esplosione di politeismo messianico, soprattutto nella cosiddetta Seconda Riforma e nelle sue sette, che ha generato il più lungo ciclo di guerre di religione che l’Europa abbia mai conosciuto, superato in intensità solo nella cosiddetta “Seconda Guerra dei Trent’Anni”, nel XX secolo, dopo che la “missione apostolica” si era pervertita nella mitologia della “missione di civilizzazione” delle nazioni europee, in competizione tra loro nell’appropriazione del mondo, dando vita così a quel fenomeno storico che ha sancito l’escatologia politica dell’Europa e che Carl Schmitt ha definito nel modo più pregnante col termine di Weltbürgerkrieg.
Come è noto, le guerre di religione del XVI e XVII secolo sono state infine neutralizzate sulla base del principio del cuius regio eius religio e della scissione tra confessio pubblica e fides privata: è qui, in questa scissione, in questa privatizzazione, interiorizzazione e individualizzazione della fides che, secondo Epimeteo, si deve rintracciare il luogo della genesi del soggetto moderno, molto più che nel cogito cartesiano. In questa clandestinità della coscienza credente, saltata ogni mediazione della comunità e dell’istituzione, l’io, solo di fronte a Dio, ha finito per identificarsi con il Messia salvatore. Infine, l’idealismo tedesco ha portato a compimento la Riforma, riprendendo il programma di Gioachino e sviluppando speculativamente questa immanentizzazione del messianico nella soggettività dell’Io che si fa Spirito del mondo. L’eredità dell’idealismo si è concretata da un lato nell’Unico di Stirner e dall’altro lato nel “soggetto sociale” di Marx. In esso il messianismo ritrovava la dimensione del “legame sociale”, portava a compimento il processo della sua immanentizzazione e diventava una delle potenze storiche più importanti per tutto l’Ottocento e il Novecento.
    A questo riguardo sia concesso un breve excursus “materialistico”.
In modo del tutto appropriato, Sequeri segnala, come tappe di avvicinamento all’individuo-Narciso, prima la “decostruzione della religione” e poi la “decostruzione della società”. Qui non si può fare a meno di ricordare che uno dei passaggi fondamentali di questa decostruzione del “legame sociale” nella tarda modernità è consistito nella “decostruzione della classe operaia” come soggetto sociale e politico e la conseguente individualizzazione e privatizzazione del lavoro, che si è prodotta negli ultimi decenni con il trionfo del capitalismo globale. Con l’espressione “privatizzazione del lavoro” ovviamente non si vuol dire che siam diventati tutti lavoratori autonomi, tutti imprenditori, ma si vuol sottolineare che, con la decostruzione della classe operaia, il lavoro è diventato una faccenda privata, un po’ come la fede, un mero medium funzionale per acquisire reddito per poter diventare “cittadini” della “città-mercato” (al punto che, in assenza di lavoro, si può sempre far richiesta del “reddito di cittadinanza”…). Il processo di disgregazione della classe operaia, come soggetto sociale capace di aggregare attorno a sé un popolo, è stato efficacemente rappresentato nel più recente lavoro di Mario Tronti, Il popolo perduto. Per una critica della sinistra (Nutrimenti, Roma 2019), da cui val la pena riportare per intero un brano che mette bene in luce la “coesione sociale” che proprio la lotta operaia e popolare era in grado di generare:
    “Quello che ci troviamo di fronte ora è il popolo dopo la classe. C’è stato un popolo prima della classe, uno in presenza della classe, ce n’è un altro dopo la classe. Noi, almeno qui in Europa che veniamo da una certa cultura, io tra questi, abbiamo conosciuto quel popolo tenuto assieme da un riferimento, da un’appartenenza di classe. Era l’Otto-Novecento della società industriale. Lì, non solo la classe, ma la lotta di classe teneva insieme il popolo. E attraverso questo, non contraddittoriamente, con il conflitto creava coesione sociale.” (op. cit., p. 102)
L’ultima fase di ristrutturazione tecnologica e geopolitica del lavoro sociale operata dagli anni Ottanta dal capitalismo globale ha definitivamente disintegrato quel soggetto sociale e politico e così il lavoro ha cessato di essere il luogo della costituzione di un “legame sociale” che si traduceva anche in una conflittualità forte di soggetti che volevano affermare la loro dignità di persone che lavoravano e che volevano cambiare il mondo. La privatizzazione del lavoro ha posto la persona che lavora sola di fronte al sistema di produzione e riproduzione capitalistico. Rileggendo il tema del “lavoro della morte” con un lessico marxiano, si potrebbe dire che il lavoro morto in quanto capitale costante, ha completato la sua sussunzione del lavoro vivo, in quanto capitale variabile, non solo come consumo della forza-lavoro in funzione della valorizzazione del capitale costante, ma anche trasformando la persona che lavora in persona che consuma e che nel consumo presume di poter esprimere il suo sé. Come scrive Sequeri, si genera così “un racconto fondatore dell’umano come macchina per il godimento: si inventa per vendere, [e si dovrebbe aggiungere: si lavora per comprare], si compra per godere, si gode per star bene. (…) La vita creativa della mente, del sentimento, della coscienza – dell’anima insomma – è inghiottita nella sua funzionalità al benessere psicofisico.” (p. 111) Qui, in questa sussunzione globale dell’esistere umano nella valorizzazione del capitale, si è data una vera e propria metamorfosi antropologica.
    Ritornando ora al tema dell’immanentizzazione storica del desiderio del Regno, si deve osservare che nello stesso arco temporale in cui in Europa il messianismo veniva cacciato nella clandestinità dell’interiorità per poi riemergere nell’Io idealistico in quanto Spirito, i reduci della Seconda Riforma sconfitta in Europa erano migrati nel Nuovo Mondo e avevano dato vita a quella Nuova Gerusalemme che sono gli Stati Uniti d’America, la terra messianica dove “scorre il latte e il miele”, il Regno come sovrabbondanza. Laggiù il messianismo della coscienza credente individualizzata ha generato il self made man che cura il suo self interest nello spazio sconfinato del libero mercato: nella “terra promessa” americana l’individuo autoreferenziale si è fatto sistema. Di fronte a questo livello di potenza, il messianismo comunista si è infine rivelato inadeguato allo scontro. Ora viviamo in un tempo che si può definire post-moderno in quanto post-messianico, in cui anche il messianismo americano ha mostrato infine la sua impotenza a creare un nuovo “nomos della terra”; un tempo “esposto” alla sacralità nichilista che genera l’io-massa narcisistico, l’Unico prodotto in serie, sotto il ferreo controllo della weberiana “razionalità formale del calcolo del capitale”. Niente esprime meglio questo esito nichilistico del messianismo immanentizzato, sul piano simbolico della ricezione del mito, del Prometeo pietrificato che Blumenberg ha recuperato da Kafka nelle ultime pagine del suo Elaborazione del mito. Citiamo direttamente dai Racconti kafkiani: “Prometeo per il dolore dei colpi di becco si addossò sempre più alla roccia fino a diventare una sola cosa con essa.”
Con questa condizione del mondo in questo tempo post-messianico si deve misurare “il messianismo di agape”.
    “Vuoto di autorità”
Nel concludere questi appunti di lettura, ci vogliamo soffermare brevemente su un aspetto del testo di Sequeri sul quale si possono avanzare alcune considerazioni critiche.
    Per cercare di chiarire a che cosa ci riferiamo, prendiamo le mosse da una citazione da Regis Debray che Sequeri inserisce nella nota n. 6 a pié di p. 105: “L’autorità infantilizzante ha fatto il suo tempo, per fortuna. Ma l’infantilismo indotto dal vuoto di autorità gode ancora di ottima salute.”
Ecco, il “vuoto” che ci sembra di poter osservare nel libro di Sequeri riguarda proprio il tema del “vuoto di autorità”, in primo luogo come vuoto di autorità politica, benché non si voglia assolutamente sottovalutare la rilevanza del problema del vuoto di autorità genitoriale o del vuoto di autorità degli insegnanti rispetto ai loro studenti o, infine, del vuoto di autorità delle élites culturali rispetto all’”opinione pubblica”. Il tema del vuoto di autorità sul terreno specificamente politico ha per Epimeteo un’importanza decisiva, a maggior ragione nell’Europa dei nostri giorni. L’infantilismo narcisista non colpisce solo gli individui-massa, ma intere collettività: il ritorno di nazionalismo, cui si assiste in questi anni, non esprime altro che un bisogno identitario ad alto dosaggio narcisistico e “infantilizzante”.
    Leggendo il testo di Sequeri si ha l’impressione che la questione dell’autorità politica sia certamente presente tra le righe, ma non venga messa sufficientemente a fuoco nella sua specificità. È come se questo nodo teorico fosse annacquato nella considerazione del diritto come “istituzione dell’umano” e infatti le importanti riflessioni di Sequeri sul “potere legittimo”, che sono già state riprese in questi appunti, sono inserite in un capitolo titolato Umanesimo giuridico e teo-logia. Manca, insomma, nei saggi presentati nel testo una riflessione specifica sull’”autonomia del politico” e sulle “istituzioni del politico” all’interno delle “istituzioni dell’umano”. In particolare, sembra del tutto assente la consapevolezza che il “politico” è quell’ambito dell’umano in cui è necessario prendere una decisione sulla discriminazione amico/nemico; la rimozione di questo tema, che appare ormai come “politicamente scorretto” e inavvicinabile ad una considerazione razionale perché il semplice accostarsi ad esso viene immediatamente denunciato come atteggiamento guerrafondaio, tale rimozione dunque dimentica che, nonostante l’apparente unità economica del sistema globale, il “nomos della terra” è ancora strutturato su “unità politiche”, alcune delle quali si muovono in base a dimensioni e logiche imperiali, le quali esercitano ancora un potere enorme sulla vita quotidiana di tutti gli esseri umani che vivono sul pianeta. Tra queste unità politiche, come è noto, non vi è l’Europa; è altrettanto noto che l’Europa, in quanto tale, nonostante i pluridecennali tentativi di unificarla e vivificarla, è politicamente morta da più di settant’anni. Sequeri sottolinea l’esigenza di “un nuovo umanesimo europeo”:
“Saranno le politiche dell’anima che decideranno se l’europeismo può ridiventare un progetto di umanizzazione dell’esistenza collettiva o deve rassegnarsi a essere un insieme di tecniche per la sopravvivenza individuale. L’impresa di un nuovo umanesimo europeo non sarà comunque senza ascesi (culturale, più che economica), né senza lotta (etica, più che politica).” (p. 56)
    Epimeteo non vuole affatto sottovalutare l’esigenza di una riconnessione etica del legame sociale e del diritto; riconosce la priorità del “nomos” degli affetti, in quanto radicato nell’agape del Dio creatore, e tuttavia considera imprescindibile la dimensione del politico: l’uomo è l’essere vocato dall’agape all’agape, ma nello stesso tempo è l’essere “gettato” nella decisione sull’amico/nemico, “gettato” non da “il caso”, non da una qualche eimarmene, ma dal Dio creatore stesso in quanto agape. Forse è qui, nella dimensione tragica di quella decisione a cui non si può sfuggire, che può essere rintracciato il luogo del “sacro”, che può diventare il luogo dello sterminio se il nemico viene ridotto al livello del subumano. Non si potrà compiere alcun passo nella direzione di una “umanizzazione dell’esistenza collettiva” e di un “nuovo umanesimo europeo” finché il nodo del “politico”, delle “istituzioni del politico”, del “legame politico” nella sua distinzione dal “legame sociale” non verrà messo a fuoco in tutta la sua problematicità antropologica e perfino teologica: da qui l’urgenza di una antropologia teologico-politica.
Di conseguenza, Epimeteo non può nascondere il proprio dissenso rispetto a quei passi del libro di Sequeri in cui la figura di “Cesare” viene accostata senza alcuna differenziazione a quella di “Mammona”, come se le due figure metaforiche costituissero una diade inscindibile: si veda, per esempio, il passo in cui viene richiamata “la differenza cristologica della consacrazione e del sacrificio” come quella “verità evangelica della fede” che “protegge l’umano che è comune dall’apparente fatalità di un destino che ci impone di sacrificare a Cesare e di consacrarci a Mammona, come ‘al dio’.” (p. 141) Ma soprattutto è nei confronti delle ultime righe del testo, a p. 145, che Epimeteo deve esprimere il suo disaccordo, seppur parziale:
    “La rivelazione evangelica di Dio, del resto, iscrive interamente la libertà del discernimento salvifico del sacro sulla linea delle affezioni che stanno tra la vita e la morte, e non su quella dei grandi eventi degli imperi che fanno la storia. Il luogo dell’adorazione ‘del dio’ in spirito e verità è proprio lì, nella vita quotidiana in cui, ogni giorno, si devono sottrarre creature al desiderio – sempre di nuovo raccomandato e onorato, come fosse un destino di consacrazione – di adorare Cesare e di sacrificare a Mammona.”
Come non essere d’accordo? Certamente, “il luogo dell’adorazione ‘del dio’” è la quotidianità dei mondi vitali delle relazioni inter-personali d’amore, di amicizia, di solidarietà nella cura, nell’educazione, nell’accoglienza. Ma come si può pensare di proteggere questa “linea delle affezioni” senza sporcarsi le mani con “i grandi eventi degli imperi che fanno la storia”? È possibile che la rimozione del nodo teorico teologico-politico che è implicito nella figura della “chiesa costantiniana” arrivi fino al punto di consegnare Cesare al dominio di Mammona? Epimeteo non ha nessuna nostalgia per quella configurazione storica tra auctoritas e potestas, che è finita da quasi un millennio, ma è sicuro che non sarà possibile “rovesciare il tavolo del soggetto moderno” se non si troverà un posto e un ruolo, innanzitutto sul piano teoretico, per Cesare. Del resto, come dimenticare il passo evangelico: “date a Cesare quello che è di Cesare”?

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