Hans Blumenberg: dall’autoaffermazione alla senescenza della modernità
Ricerche, 21 gennaio 2019
L’ipotesi complessiva sulla base della quale si tenta questa interpretazione dell’arco trentennale della ricerca teorica di Blumenberg può essere così riassunta: dall’apologia dell’autogenesi e dell’autonomia della modernità, della sua “legittimità” storica, alla constatazione della sua senescenza, del suo essere pervenuta ad uno stato di inerzia in cui il sommo criterio di orientamento si è ridotto alla mera autoconservazione dell’acquisito.
All’interno di questa ipotesi interpretativa generale, il primo elemento che si vuole mettere in evidenza è la forte valenza politico-ideologica (si potrebbe anche dire “retorica”, data l’importanza che questa modalità della comunicazione e dell’argomentazione assume in Blumenberg) della tesi sulla modernità come autoaffermazione dell’umano in contrasto alla tesi della secolarizzazione. Per il filosofo di Lubecca è decisivo autonomizzare la modernità dalla sua radice cristiana, purificarla geneticamente dal suo radicamento nel trascendente, in qualsiasi forma esso si presenti, liberarla da quell’”assolutismo teologico” che aveva dominato l’Europa medioevale, così come l’antropogenesi era consistita nella liberazione dall’”assolutismo della realtà”. Per essere espliciti, tale valenza politico-ideologica ha il nome di liberalismo, in quanto contrapposizione a ogni forma di assolutismo e dunque in quanto relativismo epistemologico, difesa della libertà dell’individuo, edonismo, ossia “principio del piacere” come criterio orientativo di ultima istanza nella complessità dell’esistenza, ma nello stesso tempo piena consapevolezza del carattere contingente non solo dell’”esserci” individuale, non solo della storia della specie umana, ma dell’intera vicenda della vita biologica all’interno dell’esistenza inorganica dell’universo (ossia: “pulsione di morte”).
In effetti, l’orizzonte ideologico liberale si fa trasparente già a partire dall’interpretazione che Blumenberg ha fornito rispetto all’ominizzazione, quando ha inteso la nominazione del reale e la narrazione mitica in funzione della necessità di superare l’angoscia provocata dalla percezione della realtà come minaccia indeterminata attraverso la sua determinazione, ossia attraverso la trasformazione del terrore in paura correlata a un pericolo delimitato, conseguendo così un distanziamento dal reale e una “divisione dei poteri” rispetto all’originario “assolutismo della realtà”.1 Il pantheon politeistico non avrebbe fatto altro che dare espressione mitica a questa operazione di scomposizione di quella concentrazione di potere che, secondo Blumenberg, doveva rappresentare la realtà per l’uomo preistorico, impegnato nella sua prima “uscita dalla caverna”, dal grembo della foresta pluviale all’”aperto” della savana2.
In generale, è necessario sottolineare come per l’apologeta della modernità il nemico teoretico principale sia costituito dalla nozione stessa di “assoluto”, nelle sue molteplici configurazioni fenomeniche storiche. Questa ipotesi interpretativa sembra confortata da un passaggio di Futuro del mito, in cui Blumenberg valorizza la narrazione mitica, rispetto alla concettualizzazione filosofica, proprio perché essa garantisce un distanziamento dall’”abisso dell’assoluto”:
“(…) proprio questo fatto caratterizza il mito, il fatto cioè che esso fa dimenticare l’inizio in virtù di un inizio e che non c’è in ciò solo una differenza quantitativa con la filosofia, bensì una disposizione elementare a non lasciarsi spingere nell’abisso dell’assoluto.”3
Non si può fare a meno di osservare a questo riguardo come in Blumenberg sia già scattato, nel passo citato, il pregiudizio per cui l’assoluto deve essere pensato in una dimensione abissale e non, per esempio, “personale”.
Mentre opera quella “divisione dei poteri” all’interno di una realtà percepita come un caos minaccioso, tuttavia nello stesso tempo il politeismo struttura il mondo come un ordinamento unitario, come un cosmo gerarchizzato. Non è casuale, anzi, è del tutto coerente con i suoi presupposti liberali, il fatto che tra le diverse cosmologie della filosofia antica Blumenberg conceda la sua preferenza a quella di Epicuro, non solo per l’ateismo e il materialismo che vi sono impliciti, ma soprattutto perché gli dèi epicurei, collocati nel vuoto degli intra-mondi e del tutto indifferenti ai vortici di materia che li circondano, costituiscono l’archetipo non solo del filosofo imperturbabile di fronte alle vicende mondane, ma, in ultima istanza, dell’individuo autoreferenziale liberale. Principio del piacere e distanziamento dal mondo, nello spazio di rispecchiamento narcisistico del giardino epicureo, definiscono le coordinate della posizione dell’individuo moderno di fronte al mondo. Il liberalismo, in quanto ideologia della limitazione del potere e della garanzia dell’autonomia dell’individuo, rappresenta il filtro attraverso il quale Blumenberg legge la storia di quella improbabilità evolutiva che è costituita dalla specie umana.
Se dunque l’antropogenesi, si era data come scomposizione politeistica del potere minaccioso del reale, la comparsa nella tarda antichità del cristianesimo e della gerarchia ecclesiastica ha prodotto, secondo Blumenberg, un duplice effetto.
In prima istanza ha generato una ricentralizzazione di potere nella figura monoteistica del divino e, soprattutto, un’autonomizzazione di tale potere rispetto al cosmo, data la trascendenza del dio creatore. Dopo l’incontro tra Chiesa e Impero a partire dal IV secolo, si è così costituito un nuovo “assolutismo”, che Blumenberg denomina come “assolutismo teologico”, perché la concentrazione di potere nel Dio Uno è stata rafforzata dall’azione dogmatizzante della “casta sacerdotale” ecclesiale, assente nella religione politeista, e della teologia al suo servizio (per non parlare della “mano secolare” della
potestas politica).
A questo riguardo si deve osservare che la continuità nella concezione dell’ordinamento cosmico che Blumenberg riscontra tra politeismo e cristianesimo riguarda esclusivamente la strutturazione della realtà mondana, mentre nella visione cristiana il cosmo non conosce alcuna autonomia ontologica come quella, per esempio, del cosmo eterno di Aristotele, ma viene consegnato alla condizione di contingenza che gli deriva dall’essere creazione dal nulla di un dio personale. In tal modo nel passaggio dalla cosmologia antica politeista a quella cristiana muta radicalmente la posizione del divino rispetto all’ordinamento mondano, dal momento che nella mitologia e nella filosofia antica greco-romana è ignoto un dio che costituisca la fonte ontologica del mondo (né il demiurgo platonico, né il motore immobile aristotelico, né tantomeno gli dei inter-mondani epicurei, né la “provvidenza” stoica si trovano nella posizione fontale in cui si colloca il dio monoteista creatore).
La nuova condizione di contingenza ontica che caratterizza il cosmo cristiano ha costituito così la condizione di possibilità per il dispiegarsi del secondo effetto epocale del cristianesimo, che sarebbe giunto a maturazione solo al termine del Medioevo, cioè la radicale de-cosmizzazione prodotta dalla discussione interna alla Tarda Scolastica sulla
omnipotentia absoluta dei con il suo esito nominalistico. Questo effetto veniva potenziato dalla rivoluzione cosmologica copernicana che finiva per operare una totale decentralizzazione della posizione dell’uomo nell’universo. A questo punto erano poste, secondo Blumenberg, le pre-condizioni storiche per il salto epocale verso l’autogenesi della modernità e l’autoaffermazione dell’umano: posto di fronte al naufragio del cosmo e al pericolo costituito dall’abisso di una sorta di “assolutismo del caos”, l’uomo reagiva aggrappandosi alla “tavola”4 della razionalità scientifica e tecnica e creava da quel nulla di ordine il suo mondo, il mondo moderno:
“I mali del mondo non appaiono più come caratteristiche metafisiche della qualità del principio cosmico oppure della giustizia che punisce, ma come caratteristiche dell’effettività della realtà. Sembrava che non si usasse alcun riguardo nei confronti dell’uomo, e l’indifferenza dell’autoconservazione di tutto ciò che esiste gli fece affrontare come male tutto ciò che si opponeva alla propria volontà di vita. Il Medioevo finì quando, all’interno del suo sistema spirituale, esso non poté più conservare per l’uomo la credibilità della Creazione come provvidenza, e quindi gli addossò l’onere della sua autoaffermazione.”5
Se da un lato la
curiositas, come predisposizione antropologica, forniva per così dire il carburante per alimentare il processo di innovazione dei modelli scientifici e delle tecnologie, dall’altro lato la stabilizzazione dei risultati delle moderne scienze della natura veniva garantita dalla formalizzazione geometrico-matematica che esse conoscevano tra il XVI e il XVIII secolo, elaborando in tal modo procedure di lavoro che potevano garantire la continuità inter-generazionale dell’attività scientifica. La forza delle scienze nella modernità derivava dunque dalla loro capacità di raggiungere la dimensione dell’istituzione:
“L’istituzionalizzazione della scienza ha imposto, contro la discontinuità del tempo dell’esperienza nel mondo della vita, la sua omogeneizzazione. Il progresso teoretico costituisce potenzialmente l’unità di un’unica esperienza.”6
Nella prima fase della elaborazione blumenberghiana del mito dell’autoaffermazione, per tutti gli anni ’60, è trasparente l’entusiasmo e la baldanza ottimistica di chi ha un nemico da combattere (la tesi della secolarizzazione) e una positività da affermare, ossia la
novitas del mutamento della posizione dell’uomo nel mondo, dalla passività che l’avrebbe contraddistinto sotto il dominio dell’”assolutismo teologico” medioevale al nuovo vitalismo demiurgico che muove l’attività umana nella modernità per istituire un nuovo ordine nel caos determinatosi con la disgregazione della
res publica christiana. Un nuovo ordine che deve essere istituito innanzitutto sul piano teoretico attraverso la formalizzazione dei nuovi modelli cosmologici della fisica e implementato progressivamente nell’edificazione del nuovo “mondo della vita” tecnicizzato. Un sintomo evidente della
novitas costituita dalla nuova visione antropologica di Blumenberg è il fatto che egli, in
La legittimità dell’età moderna, sottolinei con forza come “l’autoaffermazione” si differenzi significativamente dalla nozione di “autoconservazione” che costituiva un concetto centrale dell’antropologia di Arnold Gehlen:
“Quindi con autoaffermazione non si intende qui la pura conservazione biologica ed economica dell’essere vivente uomo con i mezzi disponibili alla sua natura. Essa significa un programma di vita, al quale l’uomo sottopone la propria esistenza in una situazione storica e nel quale egli traccia il modo in cui intende affrontare la realtà che lo circonda e cogliere le proprie possibilità.”7
In particolare, Blumenberg mette in evidenza l’insufficienza della concezione gehleniana dell’uomo come “essere carente” (
Mengelwesen) di fronte alla capacità di iniziativa che l’uomo moderno ha dovuto dimostrare per far fronte al caos:
“(…) lo stadio moderno della tecnicità non può più essere compreso solo a partire dalla sindrome della struttura antropologica della carenza. La crescita del potenziale tecnico non è solo la prosecuzione, anzi non è nemmeno solo l’accelerazione di un processo che abbraccia l’intera storia dell’umanità. La moltiplicazione quantitativa delle prestazioni e delle risorse tecniche si può derivare piuttosto solo da una nuova qualità della coscienza. Nella crescita della sfera tecnica vive una volontà che affronta consapevolmente la realtà estraniata, una volontà di conquistare una nuova umanità di questa realtà.”8
In questa lunga citazione è evidente lo sforzo di Blumenberg di differenziare l’autoaffermazione come prodotto storico specifico della modernità dalla autoconservazione in quanto costante antropologica vigente in ogni epoca umana. Inoltre, dal punto di vista della direzione dello sguardo in senso temporale, mentre l’autoconservazione è chiaramente rivolta verso un passato da riprodurre, l’autoaffermazione al contrario è diretta a un futuro da edificare. Non a caso nella parte finale della citazione si fa riferimento all’autoaffermazione come “volontà di conquistare una nuova
umanità di questa realtà”, cioè della realtà mondana “estraniata”, un’espressione che non può non ricordare l’enfasi marxiana sulla umanizzazione della natura ad opera della prassi storica dell’uomo. Ma in secondo luogo, e ciò viene ancora più naturale, quel riferimento alla volontà di conquista non può che richiamare Nietzsche e la sua “volontà di potenza”. E infatti:
“[Nietzsche] ha enunciato la situazione dell’uomo abbandonato, con la scomparsa dell’ordine, dalla provvidenza naturale e affidato a se stesso. Ma Nietzsche non esprime in tal modo la delusione del cosmo perduto, bensì celebra il trionfo dell’uomo ridestatosi a se stesso dall’illusione cosmica e gli garantisce il dominio sul suo futuro. L’uomo che concepisce non solo la natura, ma anche se stesso come disponibile, nell’autoaffermazione della storia moderna ha attraversato solo lo stadio preliminare del proprio autoinnalzamento anche eccessivo. Solo la distruzione della fiducia nel mondo ne ha fatto l’essere creativamente attivo, lo ha liberato da un fatale acquietamento della sua attività.”9
Soprattutto Nietzsche, con il suo concetto di vita e di volontà di potenza come autosuperamento, ha permesso di superare, appunto, il concetto di autoconservazione come criterio fondante della relazione uomo-mondo e in tal modo ha colto la novità della posizione dell’uomo di fronte al mondo nell’epoca moderna; così Blumenberg innanzitutto cita da
Al di là del bene e del male:
“Un’entità vivente vuole prima di tutto liberare la propria forza – la vita stessa è volontà di potenza –: l’istinto di conservazione ne è soltanto una delle conseguenze più indirette e più comuni.”10
Poi commenta:
“La sostituzione della «volontà di potenza» all’istinto di conservazione è solo il rovesciamento dell’idea che la realtà sia priva di riguardi per ognuno dei suoi membri, nel postulato per cui la vita debba essere priva di riguardi nei confronti della realtà.”11
Come si vede, la retorica di questi passi mira ad una esaltazione enfatica della nuova posizione dell’uomo nel mondo, conseguita con la modernità, che va ben al di là del pessimismo antropologico di un liberal-conservatore come Gehlen: l’umanesimo blumenberghiano che emerge in
La legittimità dell’età moderna sembra fortemente intriso dell’ottimismo giovanile di chi si sente investito da una
novitas epocale, quasi fosse portatore di un annuncio di autoredenzione, dell’emersione dal basso del regno dell’umano nel mondo.
Nelle righe precedenti si è usato il termine “ottimismo” per delineare la posizione del filosofo tedesco rispetto alla prospettiva storica aperta dall’età moderna. La connotazione in senso positivo che deriva da quell’impiego va corretta: molto più adeguata per caratterizzare la posizione di Blumenberg risulta senza dubbio la nozione di “prometeismo”, dal momento che in essa, oltre che l’archetipo mitico dell’eroe che si batte per l’autonomia degli umani rispetto agli dèi, è contenuta implicitamente anche la dimensione tragica in cui quella figura simbolica si colloca. L’ipotesi interpretativa che qui si vuol avanzare consiste nell’affermazione per cui dopo la trionfale cavalcata dell’autoaffermazione espressa in La legittimità dell’età moderna, negli anni ’70 venga in primo piano proprio questa componente del tragico nel moderno, o, almeno, si potrebbe dire che emergano i limiti dell’autoaffermazione. Da questo punto di vista Elaborazione del mito, pubblicato in Germania nel 1979, risulta assolutamente esemplare.
Innanzitutto, in questo testo si può notare un attenuarsi della secca contrapposizione che si dava in
La legittimità tra il dogma dell’”assolutismo teologico” da un lato e la metaforologia, la mitologia e, soprattutto, la razionalità scientifica dall’altro; come ha scritto Gianni Carchia nell’introduzione a
Elaborazione del mito, “il tema profondo di
Arbeit am Mythos non è il contrasto fra una supposta pagana leggerezza del mito ed una cupa serietà del dogma, ma piuttosto il loro intreccio”; inoltre “il rovesciamento umoristico [tra mito e dogma da un lato e razionalità scientifica dall’altro] è tale che, a tratti, può sembrare che a indossare le vesti del dogma sia ora la stessa razionalità della scienza moderna.”12 A conferma dell’osservazione di Carchia, si può citare quanto scrive lo stesso Blumenberg a proposito del dogma dell’incarnazione e della narrazione della passione e morte del Cristo:
“Nessuna teoria del mito, se il suo scopo è di far capire cosa è successo, può perdere di vista la perfezione con cui in questo caso mito e cristianesimo convergono, a dispetto dell’annullamento dei mezzi del mito.”13
In questo contesto problematico emerge il tema importantissimo del rapporto, nel pensiero di Blumenberg, tra il suo scetticismo di fondo, che deriva dal fatto che le scienze moderne hanno operato una consapevole “rinuncia al senso”14, e l’insopprimibilità di domande di ultima istanza che non sono altro che quelle implicite nelle kantiane “idee della ragione” e che nel loro complesso riguardano la totalità del reale, come scrive lo stesso Blumenberg in
Paradigmi per una metaforologia:
“Metafore assolute «stanno in corrispondenza» con quegli interrogativi ingenui, cui per principio non si dà risposta, la cui rilevanza consiste semplicemente nel fatto che essi non sono eliminabili, perché non siamo noi a porli, bensì li troviamo già posti nella costituzione stessa dell’esistenza.”15 “La loro verità è, in una accezione molto lata, pragmatica. Il loro contenuto determina, come termine di orientazione, un comportamento; esse danno una struttura al mondo, danno una rappresentazione del tutto della Realtà, che come tale non è mai esperimentabile né dominabile.”16
Questo insieme di problemi, tuttavia, è di una tale complessità epistemologica che esige un approfondimento specifico che non può essere prodotto in questo saggio, in cui ci si limita a seguire la parabola del pensiero blumenberghiano dall’epica dell’autoaffermazione negli anni ’60 al suo esito estremamente più problematico negli anni ’80. Prima però di tornare all’analisi blumenberghiana del mito di Prometeo, può essere interessante soffermarsi brevemente sull’illustrazione da parte del filosofo di Lubecca di altre figure archetipiche dell’autocoscienza della modernità, in particolare quelle di Edipo, di Narciso e di Faust. Sull’importanza della “ricezione” della prima di esse non c’è bisogno di spendere parole, data la rilevanza del tema del “complesso edipico” in Freud. A questo proposito, è importante evidenziare come Blumenberg riesca a ritradurre una problematica psicologica nei termini di una fenomenologia dell’origine:
“Il conflitto più profondo che il soggetto che riflette sulla propria radice assoluta può avere con se stesso, è la constatazione della propria contingenza mondana, della propria mancanza di necessità. Forse i conflitti col padre e con la madre scoperti dalla psicoanalisi e riscoperti nel mito sono solo dei fenomeni di superficie in cui si articola questo più profondo conflitto, che consiste nel fatto o nasce dal fatto che il soggetto è il risultato di un processo fisico e di conseguenza non può avere alcuna esperienza della propria autocostituzione. Anzi: l’unica evidenza assoluta di cui è in possesso, il cogito sum, gli scopre la propria costituzione come qualcosa di eterogeneo.”17
Riguardo alla figura di Narciso, invece, essa diviene l’archetipo dell’autorappresentazione estetica della soggettività moderna, il cui esemplare più importante è costituito secondo Blumenberg da niente di meno che dall’intero sistema dell’idealismo tedesco:
“La filosofia della storia trasforma di nuovo la storia in una storia, la quale tratta del soggetto originario che gioca o va in cerca d’avventura o modella forme. Non può essere più quell’essere perfettissimo nel quale Cartesio aveva cercato la garanzia dell’accessibilità teorica del mondo, perché di un simile soggetto non poteva darsi una storia; secondo la definizione classica della sua eternità, esso era tutto in una volta. Ma se l’Assoluto perviene a se stesso solo attraverso il tempo, la sua storia comunque non gli capita, non ha il potere di inquietarlo e sorprenderlo, ma entra nell’orizzonte della sua esperienza come la storia che egli stesso ha fatto. Questa esperienza è, rigorosamente parlando, di natura estetica.”18
Questa linea interpretativa incentrata sull’esito estetico-narcisistico della modernità viene sviluppata da Blumenberg attraverso l’analisi del Faust di Paul Valéry, il
Mon Faust19. In esso si assiste ad un sorprendente rovesciamento delle parti, in cui il tentatore non è più il demonio, ma un vecchio Faust che non sa più che farsene della sete di conoscenza che invece è incarnata da un Mefistofele attardato su una linea di frontiera ormai superata dalla tarda modernità, per la quale molto più rilevante della
curiositas scientifica è l’esperienza estetica della sensualità. Ma questa metamorfosi della figura di Faust perviene infine ad un rovesciamento teologico, in cui il soggetto divinizzato pensa se stesso come il creatore non di un mondo altro da sé, come forse voleva ancora Stirner, ma di se stesso come un mondo in cui narcisisticamente rispecchiarsi:
“L’universo che era stato così importante per Faust, gli è divenuto indifferente come riempimento (…) di questa coscienza; perciò essa non pensa nulla. Questo nulla di mondo è nello stesso tempo il tutto di presenza del Sé per se stesso – una presenza che Faust può definire solo servendosi di una formula che è quasi identica a quella del Dio biblico: «Je suis celui que je suis» . La sua opera d’arte, aggiunge, è ora soltanto il fatto di vivere, e la sua opera più grande è il fatto di sentire, di respirare.”20
A questo punto si può affrontare il tema del Prometeo, innanzitutto avvertendo che delle 350 pagine dedicate alla ricezione ed elaborazione di questo mito si metteranno in evidenza solo pochi elementi salienti considerati come i risultano finali della ricezione di quel mito che Blumenberg ha definito come il “mito terminale”21 della modernità, ossia una sorta di mito escatologico.
In primo luogo, Blumenberg, nella contrapposizione di Prometeo a Zeus, rinviene la possibilità della attualizzazione nella modernità della arcaica “divisione dei poteri” del divino che si è già esaminata22, fino a giungere al rovesciamento del rapporto di potere tra il divino e l’umano nel momento in cui Prometeo non viene più individuato come figura di un dio contro un altro dio (da qui il tema del Nemo contra deum nisi deus ipse, che meriterebbe un saggio specifico), ma finisce per identificarsi con la dimensione dell’umano che si ribella al divino nel suo complesso, così come avviene nella famosa Ode di Goethe a Prometeo, di cui val la pena citare alcuni versi estremamente significativi:
“Copri il tuo cielo, Giove, / col vapor delle nubi! / E la tua forza esercita, / come il fanciullo che svetta i cardi, / sulle querce e sui monti! / Ché nulla puoi tu / contro la mia terra, / contro questa capanna, / che non costruisti, / contro il mio focolare, / per la cui fiamma tu / mi porti invidia. // Io non conosco al mondo / nulla di più meschino di voi, o dèi. / Miseramente nutrite / d’oboli e preci / la vostra maestà / ed a stento vivreste, / se bimbi e mendichi / non fossero pieni / di stolta speranza.”23
Qui Prometeo è davvero “metafora assoluta” dell’autoaffermazione della modernità, che tuttavia in Nietzsche, dalla sua originaria connotazione in senso tecnico-scientifico, si è già curvata in senso estetico. Infatti, secondo Blumenberg, in Nietzsche lo scontro tra Zeus e Prometeo si traduce nella lotta tra due grandi artisti in conflitto sulla forma da dare al mondo:
“L’interesse di Nietzsche per questo mito non ha nessuna tendenza morale; egli ha di fronte a sé la rivalità di due artisti che vogliono l’opera d’arte totale, di due «ingannatori» nel senso di quell’«immorale Dio-artista» che mette in scena la sua rappresentazione totale del mondo.”24
Ma questa metamorfosi del mito in senso estetizzante conosce un esito tragico e nichilistico nella ricezione che di esso ha dato Kafka, con la sua scarna paginetta contenente quattro “rettifiche” sull’eroe ormai incatenato sul Caucaso, di cui la più significativa appare la seconda nell’incredibile pregnanza delle sue due righe scarse, che qui si citano direttamente dalla raccolta dei Racconti:
“Prometeo per il dolore dei colpi di becco si addossò sempre più alla roccia fino a diventare una sola cosa con essa.”25
Blumenberg, in questa “rettifica” kafkiana, vede riflessa l’immagine più estrema dell’eterno ritorno dell’identico, il ritorno dell’organico all’inorganico, “il ritorno di un unico vano e come imbarazzato movimento della natura, la propria pietrificazione, verso il gesto ieratico del definitivo rifiuto. Solo l’inorganico dura oltre la storia.”26
L’umano si è pietrificato nella natura: che ne è dell’autoaffermazione? E che ne è del “sì alla vita” di nicciana memoria in questo imporsi escatologico della freudiana pulsione di morte? Resta solo la darwiniana evoluzione casuale di qualcosa.
Se si mette in connessione questa interpretazione del Prometeo come mito “terminale” della modernità con le considerazioni che Blumenberg aveva scritto in
Elaborazione del mito cinquecento pagine prima, si scopre che per il filosofo tedesco non si dovrebbe parlare di eterno ritorno dell’identico, dal momento che si darebbe, a suo parere, un’asimmetria tra principio del piacere (contingente) e pulsione di morte (assoluta) che farebbe sì che il ritorno all’inorganico sarebbe “definitivo”, quasi come un’escatologia “terminale” in una concezione lineare e non circolare del tempo:
“La pulsione di morte non è simmetrica e dello stesso rango del principio del piacere, perché trasforma il dominio di questo principio in un episodio. Essa è assoluta perché implica il raggiungimento di una condizione il cui grado di sicurezza è assoluto – una condizione, cioè, al di sotto della quale è impossibile scendere. Non è un mito [quello freudiano giocato tra principio del piacere e pulsione di morte] dell’eterno ritorno dell’identico, ma del definitivo ritorno«a casa» nello stato originario.”27
Questa sorta di escatologia nichilista, che si basa sulla fisica del secondo principio della termodinamica e la connessa nozione di entropia, psichicamente si presenta come pulsione di morte. E tuttavia, constatare l’assunzione della parola “definitivo” da parte del massimo teorico della contingenza non può non suscitare una reazione di sorpresa che infine spinge a contraddirlo. Il ritorno all’inorganico non può essere definitivo, perché l’organico e il vitale da lì sono, casualmente, nati e dunque da lì rinascerebbero, dopo una eventuale pietrificazione universale. Se il nichilismo sta in questa affermazione del carattere “definitivo” della pietrificazione, allora questa prospettiva non regge. Piuttosto, il nichilismo potrebbe essere rinvenuto nel fatto che nel
circulus vitiosus deus28 a dominare è il “non-essere”, piuttosto che l’essere. Infatti, il ciclo è mosso dall’emergere dell’organico e del vitale dall’inorganico e dunque si dovrebbe parlare di una pulsione di vita nell’inorganico, così come nell’organico/vitale si avrebbe una pulsione di morte; ma questa pulsione di vita sul piano ontologico non sarebbe altro che una pulsione al “non-esserci-ancora”, mentre la pulsione di morte sarebbe una pulsione al “non-essere-più”. Entrambe queste pulsioni ontologicamente sono indicate da un concetto, il concetto di “possibilità”, la possibilità del non-esserci-ancora del vitale dall’inorganico, la possibilità del non-essere-più dal vitale all’inorganico; la possibilità è il concetto che sta alla base del concetto di contingenza, il concetto non metaforico dove finisce l’”inconcettualità” blumenberghiana, il concetto che esprime l’ultimo “assoluto” in cui precipita la blumenberghiana “divisione dei poteri”.
Il filosofo di Lubecca è un maestro nella costruzione di sintesi fulminanti. La sintesi di Elaborazione del mito, in quanto interpretazione del nichilismo del moderno, sta forse in questa frase: “L’essenza di tutte le difficoltà sta nel non essere ancora ciò che non è più.”29
L’esito nichilistico dell’autoaffermazione, che trova raffigurazione nella pietrificazione del Prometeo kafkiano, trova un ulteriore riscontro sul piano semantico in
La leggibilità del mondo, edito in Germania nel 1981, due anni dopo
Elaborazione del mito. In questo caso sembra essere in gioco la possibilità stessa di una metaforologia, ossia della trattazione della questione del senso non in termini di risposta concettuale alla domanda, ma attraverso una strategia di traslazione che trova espressione nella nozione blumenberghiana di “significatività”, un concetto che esprime lo scarto tra l’oggettività delle scienze e la richiesta di senso che proviene dal mondo della vita, come viene spiegato in
Elaborazione del mito:
“Esso [il principio di significatività] dice che nel mondo storico e culturale le cose possiedono valenze diverse per l’attenzione e la distanza vitale da quelle che possiedono nel mondo oggettivo di ciò che viene studiato dalle scienze esatte, nelle quali l’investimento soggettivo di valore nei fenomeni tematizzati tende di norma a zero.”30
La leggibilità del mondo ripercorre dunque la storia della metaforica della natura come un libro leggibile e dunque costituisce il tentativo di rintracciare “una metafora per il tutto della sperimentabilità” (titolo del primo capitolo), ossia di rinvenire significatività in un mondo dominato dall’interazione di scienza e tecnica. Infatti, per Blumenberg “leggibilità” non implica soltanto decodificazione, quanto soprattutto significatività del testo in rapporto alla domanda di senso. In questa direzione va letta la sua fulminante sentenza sull’insopprimibilità della domanda di senso, contro le pretese di esaustività della razionalità illuminista ed idealista:
“La richiesta di senso, razionalmente espulsa dal campo, è più astuta della ragione che elegge se stessa ad astuzia.”31
Da questo punto di vista va letta la sua affermazione secondo la quale la rivoluzione cosmologica copernicana istituisce un modello di mondo incapace di significatività:
“L’inevitabile conseguenza del copernicanismo era che l’uomo non è capace di raggiungere quel punto di vista della realtà che gli rendeva accessibile, oltre che alcune ipotesi sulla connessione degli oggetti, anche qualcosa del loro significato.”32
In effetti, il tema della significatività implica, come condizione di possibilità, che il testo sia un
medium in una relazione di intersoggettività, quella tra l’emittente e il ricevente33, e infatti lo schema dominante della metafora della “leggibilità” era stato per secoli quello per cui il mondo è il libro scritto da dio per l’uomo, leggendo il quale quest’ultimo può comprendere l’intenzione del creatore e dunque il senso del mondo. Così, ancora in Galileo e Keplero è presente “la fondamentale ipotesi che la lingua della matematica non sia semplicemente un espediente dello spirito umano per illustrare le relazioni della natura, ma la lingua dello stesso Dio geometrizzante.”34 Nello stesso tempo però, con questa formalizzazione geometrico-matematizzante del linguaggio divino è compiuto il passo decisivo verso la sterilizzazione della sua significatività: un dio che parla una tale lingua non è più un dio personale. È quanto sottolinea Blumenberg a proposito del
deus calculans di Leibniz, il creatore del migliore dei mondi possibili, che, in quanto tale, finisce per distruggere la metaforica della leggibilità:
“Questa infatti presuppone una relazione tra una persona nei suoi possibili comportamenti espressivi e altre persone – presuppone cioè che la ragione del mondo sia estroversa ed espressiva – e che ambedue i lati siano uniti o debbano unirsi nel loro bisogno di conoscenza reciproca.”35
“Che il mondo reale non esaurisca l’orizzonte delle possibilità, sarebbe stata la premessa del suo valore espressivo, gli avrebbe conferito la peculiarità di una certa foggia, il valore di una traccia verso il suo autore, il suo stile e la sua scrittura. Ma in quanto migliore dei mondi possibili esso ha perso l’indispensabile margine di variazione. Il principio razionale di scelta è deterministico: c’è solo un mondo che soddisfi la condizione. La ragione dietro il reale dei mondi possibili non è più quella di un «soggetto» che potrebbe dare di sé una comunicazione «di proprio pugno», ma è la ragione di una deduzione di cui va garantita l’infallibilità.”36
Dunque, all’interno di un universo teoretico post-copernicano, in cui anche l’etica è more geometrico demonstrata, non è più data né espressività né significatività del reale in quanto “traccia” di un “autore” personale, ma soltanto l’autodispiegarsi delle implicazioni di assiomi matematici. Che in questo contesto possa comparire la metafora del “libro vuoto”, della pagina bianca, esemplarmente illustrata dalla metafora sessuale di Lichtenberg (“La carta che non ha ancora perduto la propria verginità e ancora ostenta il colore dell’innocenza, è sempre migliore di quella usata”37), non deve quindi stupire. Ma a questo punto si è andati oltre l’impersonalità del codice matematico, qui ci si colloca sul livello metafisico della superiorità della possibilità rispetto alla realtà, e precisamente la superiorità della possibilità della significazione rispetto all’attualità del significato:
“(…) il libro su niente è il libro assolutamente autarchico; non ha bisogno di altro che di sé. È nuda
significazione. Qui diventa visibile la connessione con la metafora del mondo come libro: se il mondo era stato una comunicazione del creatore alle sue creature, la perdita di questa funzione doveva lasciare il gesto vuoto del significare, il mondo come libro su niente.”38
In ultima analisi, si potrebbe interpretare La leggibilità del mondo come illustrazione della progressiva distruzione storica della metaforica della leggibilità ad opera della razionalità della scienza moderna. Così l’apologeta della curiositas si trova consegnato a un esito che demolisce il teorico della metaforologia. La difficoltà in cui si trova Blumenberg è palpabile già dal primo capitolo, quando, illustrando l’intenzione di fondo del testo, scrive che “ciò che deve essere descritto, attraverso questo processo dalla lunga durata storica, sono le forme di esaurimento di quella pretesa al senso, ma anche le forme della resistenza contro il suo livellamento, come quelle della sensazione della sua perdita.”39 Dunque, “forme dell’esaurimento” e “forme della resistenza”; ma l’impressione che si ha al termine della descrizione è che la resistenza del metaforologo sia vana di fronte alla potentia absoluta pienamente dispiegata della decodificazione scientifica fondata sulla rinuncia alla significatività e al senso.
È quanto emerge nell’ultimo capitolo, titolato
Il codice genetico e i suoi lettori. Con la decodificazione del genoma, il problema non consiste tanto nello “scandalo di una concorrenza con l’autore unico del mondo, che tanto aveva fatto per nascondere alla vista il segreto della sua opera”, mentre “l’uomo avrebbe ora decifrato lo scritto e quindi si sarebbe procurato la possibilità di scriverlo.”40 Certo, lo sviluppo delle biotecnologie pone problemi etici tali per cui “è dovere dell’umanità esitare di fronte ad opzioni che promettono felicità, nella misura in cui queste comportino rischi assoluti”41, ma Blumenberg non si associa al “visionarismo blasfemo-apocalittico”42 derivante dai timori legati alle nuove potenzialità contenute in quelle tecniche. Ciò che realmente impressiona il metaforologo nelle ultime pagine del testo è, per così dire, la desertificazione semantica che si produce sulla frontiera più avanzata della decodificazione del mondo, il fatto che “nella biochimica e nella genetica si può osservare come il progresso della teoria smantella i ponteggi delle metafore, dei quali con tanto successo si è servito; come al posto della leggibilità non metta altro che l’interazione di caratteri stereospecifici di riconoscimento delle molecole, che le inducono a fabbricare aggregati ordinati.”43
D’altra parte Blumenberg non ha nulla di che meravigliarsi, visto che i “modelli di mondo” della razionalità scientifica44 si sono sviluppati proprio sulla rinuncia al senso e quindi a quella significatività di cui la metafora è espressione. Quando il codice non consiste in altro che in reazioni biochimiche, ogni significatività è finita, ma allora l’umano perde ogni differenza all’interno della sconfinata variabilità delle forme della vita organica e finisce così per equivalere a qualsiasi protozoo: una antropologia non avrebbe più alcun senso in quel contesto e ci sarebbe spazio solo per una neurologia. Del resto un tale esito sembra già affacciarsi con la psicoanalisi di Freud, per il quale “l’ideale è la scomposizione di tutti i processi psichici in reazioni chimiche; la reattività psichica come risposta all’azione di fattori chimici. Psiche è un concetto provvisorio per il complesso chimico che ancora troppo, forse definitivamente, sfugge alla nostra analisi reale.”45 Quel “forse definitivamente”, che aveva una plausibilità all’epoca di Freud, è ormai superato dallo sviluppo delle neuroscienze e dal loro tentativo di spiegare su basi puramente biochimiche i fenomeni del conscio e dell’inconscio.
Avviandoci alla conclusione di questo tentativo di interpretazione dell’evoluzione del pensiero di Blumenberg sull’età moderna, resta da prendere in esame la sua ultima grande opera pubblicata in vita, quel
Uscite dalla caverna, pubblicato in Germania nel 1989, che costituisce una sorta di
summa dell’intera sua elaborazione. Di fronte alla mole sterminata di materiali di riflessione di cui consiste quel testo, si sceglie qui di adottare un taglio interpretativo che mette in evidenza il ritorno dell’autoaffermazione all’interno della “caverna” dell’autoconservazione, da cui invece si voleva fuoriuscire in
La legittimità dell’età moderna.
Come è noto, in Uscite dalla caverna Blumenberg assume il mito platonico narrato ne La Repubblica come filo conduttore per ripercorrere non solo l’intera storia della specie umana, ma addirittura dell’evoluzione del vivente alla luce della nozione di “transizione” da una “caverna” all’altra, da quelle ecologiche, a quelle fisiche, a quelle culturali. La prima di queste transizioni è costituita dall’uscita del vivente dall’ambiente marino e del suo insediarsi in quello terrestre; la seconda riguarda esclusivamente la specie umana e consiste nel passaggio, cui si è già accennato, dall’ambiente della foresta pluviale all’”aperto” della savana, un passaggio che costringeva alla ricerca di un nuovo rifugio, appunto le caverne nel senso letterale del termine.
All’interno di questa forma di insediamento, si assiste alla prima, decisiva metamorfosi antropologica: con il senso di sicurezza che il nuovo ambiente era in grado di garantire, gli uomini possono consentirsi il lusso del sonno profondo, “e così, passando per la caverna, l’uomo divenne l’animale sognante”46 e dunque con il sogno e con la necessità della sua interpretazione si assiste a un decisivo potenziamento delle capacità umane di distanziarsi dalla realtà. E in effetti, Blumenberg mette in evidenza come nella transizione alla caverna fisica si produce una differenziazione funzionale tra chi esce nell’aperto per cacciare e chi (“i deboli”, cioè le donne, i vecchi e i bambini) resta al sicuro nello spazio protetto della caverna e quindi può elaborare quell’attività sognante in capacità di rappresentazione, di progettazione, di concettualizzazione e di narrazione:
“I deboli avevano compreso il principio dell’effetto a distanza, dell’atto in absentia et per distans, forse a furia di progettare trappole che permettessero di aspettare al sicuro che facessero il loro mestiere. In tal modo può essersi formato l’ideale di ottenere effetti da lontano mediante la parola e l’immagine, senza avere contatti diretti”.47
In questa differenziazione funzionale tra i cacciatori e quelli che si potrebbero già chiamare gli “intellettuali” si dà luogo ad un “meccanismo della compensazione”, che costituisce una prima limitazione della legge del più forte, e nello stesso tempo si assiste allo sviluppo di quella facoltà umana che è alla base della stessa produzione di metafore e di storie, la fantasia:
“La vita nella caverna si conserva solo se si esce dalla caverna, e ciò che questo comporta in termini di destrezza e prontezza appare ben presto come misura imprescindibile del diritto all’esistenza. Ciò nondimeno qui – le immagini ne sono la prova – deve essere stata infranta, o per lo meno limitata, la legge del più forte (…). I figli della caverna, quelli che non potevano mai far valere per sé la legge del più forte o il primato della caccia, inventarono il meccanismo della compensazione. Non contribuivano ad assicurare la vita, ma imparavano a darle tutto ciò che l’avrebbe resa degna di essere vissuta. (…) Sotto la protezione delle caverne, e della legge delle madri, quelli che restavano dentro fecero sorgere la loro risposta al libero vagare all’aria aperta: nasceva la fantasia.”48
Ora, in questo contesto argomentativo, che si riferisce ad un’epoca preistorica precedente di qualche decina di migliaia di anni la genesi dell’età moderna, ricompare il concetto di “autoaffermazione”, quel concetto che, come si è visto, doveva contrassegnare la specificità dell’età moderna:
“Si dovrà dunque parlare di «compensazione», senza che in ciò si colga un processo intrapsichico. È una figura collaterale dell’autoaffermazione mediante un’offerta che si fa equivalente alla quantità di cibo. (…) Ciò che dunque fu inventato a difesa della semplice esistenza e per compensare una mancanza di rendimento, si eleva a motivo di vanto e perfino di qualificazione per il processo riproduttivo; in tal senso non si tratta solo di uno stratagemma di affermazione in una situazione disperata [come nel caso dell’autoaffermazione nella modernità], ma del processo antropogenico stesso, che giunge a dare una prima espressione a quel che comunque e per sua tendenza immanente si prospettiva.”49
Come si vede questa prima autoaffermazione preistorica si riferisce ai “deboli” di fronte ai cacciatori: i primi compensano la loro mancata partecipazione alla rischiosità della caccia fornendo prestazioni culturali. Ma con tale retrodatazione al preistorico, l’autoaffermazione cambia radicalmente la sua connotazione: da contrassegno di un fenomeno storico, cioè la genesi della modernità, si trasforma in una costante antropologica; ma in tal modo l’autoaffermazione viene radicalmente funzionalizzata ad un’altra costante antropologica che le è sovraordinata, ossia all’autoconservazione in quanto lotta per l’esistenza, al punto da assorbirne la logica, cioè la lotta per il dominio all’interno della collettività umana, contando sul fatto che, a detta di Blumenberg, “l’unico vero potere” è il “potere sulle menti”:
“Ciò che può chiamarsi «spirito», o qualcosa del genere, che può essersi sviluppato così o in qualche altro modo, è coinvolto in questa origine e dunque nella razionalità dell’autoconservazione (a parte la sua). È contro lo strumentale [trasparente riferimento ad Heidegger], perché esso stesso non vuole essere uno strumento. È per sua essenza dominio, anche se lo esercita solo in ore e in luoghi designati. Ovviamente anche solo il bardo o il mimo che alla fine dello spettacolo si inchina davanti al pubblico che ha ammaliato, ha esercitato più potere rispetto a quanto possa mai aspirare un qualunque padre di orda, capobanda, segretario generale o funzionario: un potere sulle menti, che in fondo è l’unico vero potere.”50
Questa ridefinizione dell’autoaffermazione in costante antropologica subordinata alla logica dell’autoconservazione si fa trasparente nell’ultimo capitolo del libro, titolato
Direttive per un ultimo progetto di caverna. In esso Blumenberg, quasi seguendo la metodica di una “libera variazione” husserliana, si cimenta nell’“esperimento mentale” di progettazione di un’allegoria della caverna adeguata a “rappresentare la problematicità del presente in una maniera analoga a quella che può valere per la caverna platonica e la sua ricezione nel corso della storia”51. A questo punto non può sorprendere il fatto che l’alfiere dell’autoaffermazione ritenga che il miglior architetto per una tale progettazione sia proprio il vecchio guardiano dell’autoconservazione, con quella antropologia del
Mengelwesen da cui Blumenberg si era esplicitamente differenziato in
La legittimità dell’età moderna: “Se ancora dovessi dire da chi in particolare mi sarei aspettato un’approssimazione a questa forma ultima dell’allegoria, farei il nome dell’antropologo Arnold Gehlen: è a lui che l’avrei domandata, anche se ora so che è inutile.”52
È davvero impressionante constatare come nelle ultime pagine di Uscite dalla caverna Blumenberg operi una completa riappropriazione dell’antropologia del vecchio liberal-conservatore, ritraducendo la nozione di “assolutismo della realtà” nella gehleniana “profusione di stimoli”, recuperando il concetto di “esonero”, definito come “la quintessenza delle condizioni della sua [dell’uomo] nuda autoconservazione”53, fino all’equiparazione della caverna al concetto apicale della costruzione teorica gehleniana, quello di “istituzione”:
“Il concetto specifico di ogni abitacolo che si possa stabilire e fondare, di tipo materiale o di tipo spirituale, si chiama
istituzione. Anche nell’ultima allegoria della caverna deve aver luogo un ritorno, dopo che si era perduto quello della sicurezza della natura; non un ritorno alle antiche ombre, ma a nuovi dispositivi di sicurezza, nonché a una stabilità priva degli assilli dello scetticismo e del dubbio. Le istituzioni sono primariamente riduzioni del bisogno di elaborare la realtà; non si deve eseguire ogni volta da capo la selezione e l’interpretazione degli stimoli e delle provocazioni. Sono inserite in forme stabilite o, più banalmente, codificate in abitudini.”54
“Abitudine” è uno dei concetti-chiave dell’antropologia gehleniana e della teoria dell’istituzione che ne deriva: cerimonializzazione, ritualizzazione, standardizzazione dei comportamenti ne sono i corollari, quanto di più anti-carismatico e anti-creativo si possa immaginare, qualcosa che certamente si oppone alla nozione di novitas. Ma “abitudine” si contrappone innanzitutto a quella facoltà umana che, come si è visto, è stata protagonista dell’autoaffermazione dei “deboli” nell’antropogenesi, la fantasia. Nelle ultime pagine di Uscite dalla caverna essa da un lato viene definita come “concetto al quale da sempre si abbina un culto della giovinezza. È il principio del piacere realizzato per via intellettuale”55; d’altra parte però si profila come qualcosa di patologico:
“La fantasia è autistica. Nel migliore dei casi, è un organo per altri mondi e perciò è incapace di generare vincoli. Non ricorda che cosa lascia dietro a sé, né dà alcuna istruzione per riporselo davanti.”56
Perciò, non è una bizzarria il fatto che in questo contesto Blumenberg si rifaccia a un saggio scritto nel 1927 da Gehlen quand’era ventitreenne, titolato Riflessioni sull’abitudine, in cui questo concetto viene ancora assunto come una negatività da superare:
“Ancora non pensa alla prospettiva dell’età sulle istituzioni come deduzione dell’antropologia a venire. Pensa ancora alle uscite dalla caverna. Egli si trova all’estremo opposto della scala, e si entusiasma per lo
sforzo consapevole e incessante di distruggere l’abitudine nella conoscenza. A ciò si appresta un organo che sembra fatto apposta per togliere di mezzo ogni ripetizione: la fantasia.”57
Nel percorso di Gehlen dalla critica dell’abitudine alla sua valorizzazione istituzionale, forse Blumenberg si rispecchia e rivede il suo tragitto dall’autoaffermazione all’autoconservazione:
“Nell’allegoria della caverna finale [quella che avrebbe potuto progettare Gehlen], il ritorno dall’
akmé della fantasia liberata potrebbe significare soltanto il declivio della perdita di giovinezza, fino alla morte. Non si può vivere sempre al vertice, nemmeno quello della fantasia.”58
In queste parole si può forse leggere in trasparenza l’arco teorico di Blumenberg, dai fasti giovanili dell’autoaffermazione alla senescenza della modernità.
Per concludere questi appunti sul filosofo di Lubecca, può essere utile tornare su un tema cui si è accennato solo di sfuggita, ossia quello delle “metafore assolute” e in particolare la “metafora assoluta” della genesi della modernità. Come è noto, in
Paradigmi per una metaforologia l’intero capitolo nono, titolato
Cosmologia metaforizzata59, è dedicato all’illustrazione della metafora assoluta della “rivoluzione copernicana” in quanto risposta inconcettuale alla questione della nuova “posizione dell’uomo nel mondo” che si determina con l’autoaffermazione della modernità. In un saggio di dieci anni più tardi, titolato
Approccio antropologico all’attualità della retorica, sembra emergere, anche se solo in forma implicita, un’altra figurazione metaforica come contrassegno della “soglia epocale”. Il contesto è quello delle domande cui non è possibile dare una risposta su base razionale, ma che nello stesso tempo risultano ineludibili. Una di tali questioni riguarda la domanda se l’uomo sia “
factor o
factum della sua storia”. La risposta di Blumenberg è ovvia, almeno per quanto riguarda l’età moderna, ma è interessante analizzare come viene articolata in questo testo:
“Che l’uomo «faccia» la storia è una chance sulla quale l’epoca moderna, dopo alcuni deviamenti storico-filosofici, ha finito per puntare. Che cosa significhi questa frase lo si può comprendere solo se ci si rende conto di quella «ridisposizione» (Umbesetzung) che con essa si compie. (…) Perché il soggetto della storia non viene scoperto o dimostrato; il soggetto della storia viene «nominato». (…) Non a caso l’atto con cui il soggetto della storia viene determinato e legittimato, ha il nome di una fondamentale figura retorica: traslatio imperii. I «traslati»: funzioni metaforiche che anche in questo caso hanno sempre e di nuovo un’importanza essenziale.”60
Blumenberg gioca dunque sull’ambivalenza del termine
traslatio, che può indicare una traslazione metaforica di significato oppure una traslazione di potere, che in ambito storiografico ha designato la traslazione tra l’impero romano e il Sacro Romano Impero. Ma a che cosa alluda Blumenberg quando utilizza in questo contesto l’espressione
traslatio imperii, diviene chiaro solo alla luce dell’ultima frase che chiude il saggio:
“La metafora più audace fu quella che cercò di abbracciare la massima tensione; essa è valsa più di ogni altra per l’autoconsapevolezza dell’uomo: proprio mentre cercava di pensare Dio come l’assolutamente-altro, dava inizio irrevocabilmente al più difficile degli atti retorici: quello di paragonarsi a Dio.”61
Dunque, la
traslatio imperii cui si sta riferendo Blumenberg è quella tra l’”assolutismo teologico” medioevale e l’autoaffermazione dell’umano e quindi può essere assunta come metafora assoluta della modernità, il punto limite a cui Blumenberg può giungere nel suo tentativo di pensare la metafora come
Ersatz non genericamente della metafisica, ma della metafisica dell’
analogia entis. Da questo punto di vista, risulta assolutamente illuminante una frase di
Futuro del mito:
“Ogni assolutismo della verità costringe all’analogia e a tale costrizione non sfuggono nemmeno gli oppositori più radicali di tale assolutismo.”62
NOTE
1. Vedi Blumenberg H., Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 25 – 37.
2. Vedi Idem,
Uscite dalla caverna, Edizioni Medusa, Milano 2009, l’intero secondo capitolo della prima parte, titolato
La sopravvivenza delle transizioni, pp. 14 – 19.
3. Idem, Futuro del mito, Edizioni Medusa, Milano 2002, p. 120.
4. Sulla metafora della “tavola” nel naufragio della de-cosmizzazione vedi H. Blumenberg,
Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna 1985.
5. Idem, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1996, pp. 143 – 144.
6. Idem,
Tempo della vita e tempo del mondo, Il Mulino, Bologna 1996, p. 197.
7. Idem, La legittimità dell’età moderna, op. cit., p. 144.
8. Ivi, p. 145.
10. Citato in ivi, p. 149.
12.
Elaborazione del mito, op. cit., p. 17.
14. Contro la denuncia espressa da Husserl ne
La crisi delle scienze europee circa il fatto che le scienze naturali avrebbero conosciuto una “perdita di senso” rispetto alla loro “fondazione originaria”, Blumenberg sostiene al contrario che la formalizzazione in senso matematico-geometrico delle scienze nella modernità aveva prodotto una consapevole “rinuncia al senso”, escludendo quindi la connotazione in termini di smarrimento: “Qui prende forma la critica delle posizioni husserliane. La perdita di senso di cui ha parlato Husserl è in verità una rinuncia al senso del tutto conseguente al progetto teoretico.” H. Blumenberg,
Mondo della vita e tecnicizzazione, in
Le realtà in cui viviamo, Feltrinelli, Milano 1987, p. 41.
15. H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Il Mulino, Bologna 1969, p. 22.
16. Ivi, p. 23.
17. Elaborazione del mito, op. cit., p. 335.
18. Ivi, pp. 332 – 333.
20. Ivi, p. 334.
22. “Il suo mito dimostra che è possibile porre dei limiti al potere di Zeus sugli uomini, quando egli lo sfida e sopravvive alla punizione. Il Prometeo dilaniato sul Caucaso, che conosce il segreto della vulnerabilità di Zeus, è perciò la figurazione saliente della divisione mitica dei poteri.” Ivi, p. 151.
23. Citato in ivi, pp. 485 – 486.
24. Ivi, p. 726.
25. Prometeo, in F. Kafka, I racconti, Rizzoli, Milano 1985, p. 408.
26. H. Blumenberg,
Elaborazione del mito, op. cit., p. 760.
28. La formula “
circulus vitiosus deus”, che ha valenza non solo cosmologica, ma anche narcisistica si trova in una citazione da
Al di là del bene e del male, che Blumenberg utilizza per mostrare l’identificazione nicciana di Prometeo con l’
Übermensh in quanto rappresenta”« l’ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e ciò che è, ma vuole riavere, per tutta l’eternità, tutto questo, così come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente: da capo non soltanto a se stesso, ma all’intero dramma e spettacolo, ma fondamentalmente a colui che proprio di questo spettacolo ha bisogno – e lo rende necessario: poiché egli ha sempre di nuovo bisogno di se stesso – e si rende necessario – Come ? E non sarebbe questo –
circulus vitiosus deus?.»” Citato in ivi, p. 745.
30. Ivi, p. 96.
31. La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna 1984, p. 205.
32. Ivi, p. 207.
33. “Il mondo aveva acquistato la sua qualità espressiva grazie all’ipotesi di una volontà di autocomunicarsi celata dietro di esso”. Ivi, p. 167.
34. Ivi, p. 74.
36. Ivi, p. 124.
38. Ivi, p. 315.
40. Ivi, p. 417.
42. Ivi, p. 415.
44. In una conferenza tenuta all’università di Gießen il 1° luglio 1961 e titolata
Weltbilder und Weltmodelle (la traduzione del testo della conferenza è ora in
Hans Blumenberg e la teoria della modernità, a cura di Barnaba Maj, Quodlibet, Macerata 2001), Blumenberg aveva contrapposto i “modelli di mondo” delle scienze naturali alle “immagini del mondo” che assolvono alla funzione di rappresentare “quella quintessenza della realtà nella quale e per la quale l’uomo comprende se stesso, orienta le sue valutazioni e i suoi obiettivi pratici, afferra le sue possibilità e le sue necessità e si progetta nei suoi bisogni essenziali. L’immagine del mondo ha una «forza» pratica, come avrebbe detto Kant.” (in op.cit. p. 15) “L’immagine del mondo conteneva l’attribuzione di senso e, per così dire, le «istruzioni per l’uso» di ogni possibile modello del mondo.” (Ivi, p. 16) È evidente che l’”immagine del mondo” cui implicitamente fa riferimento Blumenberg è quella cristiana che aveva dominato l’Europa medioevale e aveva rappresentato la base dell’”assolutismo teologico”. La posizione di Blumenberg nel conflitto fra “modelli del mondo” e “immagini del mondo” è chiarissima: “Certo, la perdita dell’immagine del mondo è un’amputazione dolorosa, poiché l’uomo esige, con un bisogno che non può essere sradicato, una risposta alle sue domande ultime e più grandi. Ma proprio in questo caso la filosofia dovrà impedire all’uomo, in senso radicale, l’obbedienza ai suoi bisogni, e precisamente a partire dal «venire al linguaggio» della coscienza scientifica. Mi sembra che sia qui raggiunto il punto in cui la tanto deprecata scissione tra le scienze dello spirito e le scienze della natura non abbia più luogo.” (Ivi, p. 23)
46.
Uscite dalla caverna, op. cit., p. 20.
48. Ivi, p. 20.
50. Ivi, p. 24.
52. Ibidem.
54. Ibidem.
56. Ibidem.
58. Ivi, p. 625.
59. In Paradigmi per una metaforologia, op. cit., pp. 137 – 158.
60.
Approccio antropologico alla retorica, in op. cit., p. 107.
62.
Futuro del mito, op. cit., pp. 69 – 70.