Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico

L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)

Appunti su IL SECOLO GREVE di Mattia Ferraresi
Interventi, 1 dicembre 2018

Populismo come sintomo della malattia (mortale?) che affligge il liberalismo in Occidente: questa è la chiave di interpretazione che ci offre Marco Ferraresi in questo snello, ma denso pamphlet (edito da Marsilio nel 2017) che si mantiene elegantemente in equilibrio tra reportage giornalistico e approfondimento teoretico. Secondo la sua diagnosi, che può essere senz’altro condivisa, la crisi della democrazia liberale non è dovuta tanto ad un attacco esterno portato da un nemico dall’aspetto truce e dal linguaggio greve, quanto da fattori endogeni che vanno molto al di là di quelli economici: “(…) non sono le invasioni dei nuovi barbari a minacciare la cittadella liberale, sono le fondamenta della cittadella stessa a dare segni di cedimento.” (p. 8) L’aggressività e la rabbia che producono consenso per le pose muscolari dei leader populisti, innanzitutto del biondo platinato Donald Trump, si spiegano a partire da un sentimento di frustrazione e di insoddisfazione profonda che le ricette liberali, nonostante il brillante superamento della crisi del 2008, hanno finito per provocare nelle società avanzate del Nord-America e dell’Unione Europea. Il problema che mette in evidenza Ferraresi consiste nel fatto che questa “era della grande disillusione” è generata non tanto da fattori economici, quanto piuttosto da ciò che egli definisce come “una crisi esistenziale” (è questo il titolo del primo dei tre capitoli in cui è suddiviso il libro). Certo, il corrispondente da New York de Il Foglio segnala tutti i punti critici che permangono anche nel quadro economico e sociale degli Stati Uniti, nonostante i 15,8 milioni di nuovi posti di lavoro creati tra il 2009 e il 2016, come per esempio l’aumento della differenza tra la remunerazione del capitale e quella dei salariati, se si pensa che, nello stesso arco temporale, “il potere d’acquisto dei lavoratori è salito del 4,2%, i profitti delle aziende private del 144%” (p. 15); oppure se si ricorda la questione dei “long term unemployed”, cioè delle persone che hanno perso il lavoro da più di 27 settimane, il cui destino nella stragrande maggioranza dei casi è quello “di unirsi ai 95 milioni di americani che si sono sganciati dalla forza lavoro, finendo fuori dalla portata dei radar.” (p. 22)

    Tuttavia, secondo Ferraresi, sono altri i fattori che spiegano la rabbia e la disillusione che hanno prodotto la vittoria di Trump nel 2016; in effetti, l’analisi dei flussi elettorali ha dimostrato come il successore di Obama “non è stato votato dagli americani più poveri” (p. 29), anzi, soprattutto tra gli elettori bianchi si osservano “sentimenti favorevoli a Trump nella parte più alta della fascia di reddito” (p. 29 basso). Ecco allora che vengono scandagliati altri aspetti della società americana che possono spiegare il consenso ottenuto da un leader improbabile e, dal punto di vista del “politicamente corretto”, assolutamente imbarazzante. Così, oltre alla questione dell’immigrazione, che certamente ha costituito una delle principali motivazioni per il voto pro-Donald, viene segnalato che “nel 2015 sono morti di overdose oltre 52 mila americani, il doppio delle vittime degli incidenti stradali” (p. 39), ma soprattutto si precisa che i quattro quinti di queste morti non sono dovute al tradizionale consumo di eroina nelle sue varie forme, ma ad analgesici a base di oppiacei ottenuti attraverso normali prescrizioni mediche: “per decenni le dipendenze sono cresciute sotto lo sguardo complice dei pusher più diffusi, i medici, e dei loro grossisti, le case farmaceutiche.” (p. 41) Il fatto che negli USA si somministri il 90% degli oppiacei consumati in tutto il mondo, mentre la popolazione americana costituisce solo il 5% di quella globale, è l’indice evidente di un problema di fondo che è costituito dalla modalità con la quale viene affrontato il problema della sofferenza e del dolore in una società atomizzata in individui cronicamente pungolati da un ambiente che richiede prestazioni sempre più elevate in una competizione sempre più intensa: “Per una società in cui l’autonomia indisturbata dell’individuo è a un tempo premessa implicita e ideale regolativo, un mondo dove virtù e performance tendono ad essere sinonimi, efficienza e volontà primeggiano, l’impatto con il limite umano può generare una frustrazione inaccettabile. Nella corsa a rotta di collo verso l’indipendenza si cade nella dipendenza.” (p. 48)
Insomma, secondo Ferraresi l’affermazione del populismo non rappresenta solo una crisi di sistema politico, quanto piuttosto segnala una vera e propria “crisi antropologica”: “L’ipotesi da cui si parte è che la storia del presente non sia quella di un dirottamento, di un’ubriacatura congiunturale, ma sia la conseguenza di una profonda crisi antropologica.” (p. 8) Dunque la crisi della democrazia liberale ha la sua genesi nella incapacità della antropologia liberale, fondata su una concezione dell’uomo come individuo autoreferenziale, a far fronte ai problemi di una società complessa in cui da un lato si generano desideri e aspettative crescenti, fino a trasformare l’individuo in “un narciso patologico”, ma dall’altro lato si sottopone tale “uomo centripeto, completamente assorbito in sé” (p. 57) ad una pressione sistemica sempre più intensa: così individuo e sistema si trova l’uno di fronte all’altro senz’altra mediazione che quella di un sistema terapeutico sempre più dominato dalla farmacologia. Rispetto a questa crisi dell’antropologia liberale, nel terzo e ultimo capitolo del libro, non a caso titolato La grande disillusione, Ferraresi si rifà alla diagnosi di Patrick Deneen, di cui il pubblicista italiano cita un saggio del 2012, significativamente titolato Unsustainble Liberalism (oggi di questo autore si può leggere il recente Why Liberalism Failed, Yale University Press, 2018). Deneen ritiene che il liberalismo si basa su due assunti fondamentali, cioè un’antropologia individualista, fondata sulla libertà intesa come libera volontà di scegliere, e la liquidazione della nozione stessa di natura umana, a favore del diritto di ciascuno di autodefinirsi soggettivamente. Da questo punto di vista, lo stesso Hobbes, secondo Deneen, può essere interpretato come antesignano del liberalismo, in quanto il pactum subiectionis è frutto di una libera scelta di individui autodeterminatisi, i quali peraltro mantengono la riserva del “diritto di resistenza” qualora l’unità politica chieda loro il sacrificio della vita (“Il Leviatano è figlio del titanico atto della volontà di individui che, guidati da un calcolo, decidono di delegare i loro diritti a chi può difenderli.” p. 137). Ciò che finisce per andare completamente smarrito in questo impianto radicalmente individualista è la nozione di relazione infra-umana, come spiega lo stesso Deneen in questo passo citato da Ferraresi: “(…) gli uomini sono per natura creature «non relazionali», separate e autonome. Il liberalismo ha avviato così un progetto per cui la legittimità di tutte le relazioni umane, a partire dai legami politici ma non solo, diventa sempre più soggetta al fatto che queste siano state scelte o meno, e scelte sulla base del loro servizio al proprio interesse razionale.” (ibidem) Ciò che secondo Deneen è più grave, dal punto di vista della tenuta delle società e dei sistemi politici liberali, è il fatto che questo individualismo, nella sua pretesa di autofondazione assoluta (e qui non si può non ricordare il concetto di “autoaffermazione” di Hans Blumenberg), finisce per non riconoscere più alcun “limite” rispetto alla sua autodeterminazione, come efficacemente spiega il politologo americano in un altro passo citato da Ferraresi: “La filosofia liberale rifiuta la necessità dell’autolimitazione umana. Ha per prima cosa rimosso l’idea di un ordine naturale a cui l’umanità è soggetta e poi ha eliminato la nozione stessa di natura umana.” (pp. 139 – 140) D’altra parte, però, è il caso di osservare qui che questo individuo autodeterminato in realtà vive all’interno di un sistema sociale funzionalisticamente differenziato che provvede efficacemente a porre ben precisi limiti alla sua “libertà di scelta” in termini, per esempio, di efficienza professionale, di disponibilità di reddito ecc.; ma soprattutto, quella società sistemica provvede per così dire a priori a riempire di un ben variegato universo di “desideri” (scientificamente/industrialmente progettato) quel supermercato delle possibilità all’interno del quale l’individuo desiderante crede di poter liberamente scegliere. In tal modo, però, come si è già notato in precedenza, l’individuo liberale finisce per trovarsi schiacciato tra l’infinita molteplicità dei desideri a disposizione e la sempre crescente pretesa sistemica nei confronti della sua “professionalità”, che costituisce peraltro l’ineludibile via d’accesso a quell’universo dei “sogni”.
    Insomma, l’effetto allucinatorio del liberalismo, che infine genera la “grande disillusione” e l’insostenibilità della crisi d’astinenza, è dovuto a quella parola-chiave che si può rinvenire nella chiusa di questo brano di Ferraresi che sigilla nelle ultime pagine del libro la sua critica dell’ideologia liberale: “(…) l’astuzia del liberalismo odierno consiste nel presentarsi come un prodotto neutrale, una cornice senza quadro, uno schema senza contenuto, offrendo ad individui sempre più slegati e soli «il vino più inebriante» di cui parlava Kierkegaard, la possibilità.” (p. 174) “Possibilità”, quella possibilità che, secondo Heidegger, “sta più in alto della realtà”, è davvero la parola-chiave del liberalismo, di una ideologia politica che presume di presentarsi, nella sua insuperabile universalità, “come una postura di default dell’umanità” (p. 11), ma che, “in realtà”, mostra sempre più la sua inadeguatezza a gestire la complessità dell’umano, del sociale e del politico. Di conseguenza si può senz’altro concordare con Ferraresi nella sua efficace e radicale critica al liberalismo in quanto ideologia politica e, soprattutto, in quanto antropologia individualistica in cui “Hobbes e Locke propongono due facce dello stesso uomo” (p. 142).
Tuttavia, qui si vuole tentare di proporre un allargamento dello sguardo diagnostico, anche solo con un breve accenno, dal momento che, secondo Epimeteo, il liberalismo non è che l’interfaccia, in termini di ideologia politica, di un fenomeno storico assai più antico e, soprattutto, di una profondità che va ben al di là dell’ideologia, ossia il messianesimo. Infatti, Epimeteo persegue una ricerca teorica in termini di teologia politica che interpreta l’intero arco storico degli ultimi due millenni alla luce della categoria di “eone cristiano”, ossia di una unità spazio-temporale incentrata sullo schema del già/non-ancora e sull’Europa come spazio dogmatico-istituzionale costituitosi sulla messa in forma del potenziale messianico contenuto nell’annuncio del “Regno di Dio” e sulla sua traduzione nelle istituzioni delle Chiesa, in quanto auctoritas interpretandi, e dell’Impero, in quanto potestas. Questa armatura istituzionale ha saputo reggere il limes (ecco il concetto di “limite”) della res publica christiana fino a circa il XII-XIII secolo, per essere poi spazzata via dal riemergere delle eresie, dalla lotta tra le due stesse istituzioni portanti, ma soprattutto dalla stessa forza espansiva della “missione” apostolica e messianica, che infine ha condotto alla scoperta e alla conquista di un Nuovo Mondo e a quel dilagare dello “Spirito che soffia dove vuole”, che infine ha trovato espressione nella Riforma protestante e in quella “libertà del cristiano” che ha determinato il passaggio dalla Chiesa alle sette.
    Tuttavia, è necessario ricordare che la pulsione messianica stava già nelle fondamenta dell’eone, perché l’originaria confessione di fede: “Gesù è il Cristo” è evidentemente una formula messianica. Infine, il potenziale esplosivo contenuto nel desiderio del Regno, cui era stata data la forma dell’istituzione gerarchico-ecclesiale, ha rotto gli argini e, fin dalla profezia gioachimita dell’”Evangelo eterno” dello Spirito (non a caso Ferraresi cita in nota il libro di De Lubac su La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore), ha innescato un processo che ha informato di sé l’intera Modernità, poiché l’individualismo e il soggettivismo da Cartesio in poi hanno la loro radice ultima in quella teoria del “sacerdozio universale”, in quella “rivelazione in interiore homine” dello Spirito, in quella inabitazione interiore del Cristo capace di fare a meno di ogni mediazione istituzionale e sacramentale. Da qui viene l’illuminismo prima e il liberalismo poi.
Del resto, che questa interpretazione della Modernità come compimento del messianesimo cristiano al di là del cristianesimo non sia del tutto campata per aria, è comprovata da diversi elementi di assoluto rilievo che si possono rinvenire proprio nel libro di Ferraresi. In particolare, nel secondo capitolo, titolato Dov’è finita la storia?, in cui viene discussa la nota tesi di Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, è possibile rinvenire diverse osservazioni che confluiscono tutte a confermare la tesi di Epimeteo secondo la quale gli Stati Uniti costituiscono una entità messianica, la Terra Promessa in cui le diverse manifestazioni del settarismo protestante hanno trovato lo spazio messianico in cui erigere il Nuovo Mondo, il Regno di Dio come Regno della Possibilità, del desiderio e della “ricerca della felicità”. Così, per esempio, a pagina 97 Ferraresi scrive: “Il fraintendimento di parte liberale della tesi di Fukuyama [ossia la trasformazione della tesi della fine della storia nella tesi ottimistica dell’inizio di un’età dell’oro] si combina perfettamente con una tendenza millenaristica che è in circolo nella psiche americana almeno dai tempi in cui i Padri pellegrini interpretavano la conquista del Nuovo Mondo come il compimento dell’alleanza spezzata fra Dio e il popolo di Israele.” E nella pagina seguente: “L’America, in questa visione, è la «nazione universale» che non risponde alle leggi che regolano gli affari del mondo, ma è custode di valori che è chiamata a diffondere su tutta la terra.” Ma soprattutto è nel quinto paragrafo di quel secondo capitolo che viene tratteggiata l’autentica identità degli Stati Uniti in quanto messianesimo immanentizzato, cioè in quanto esito estremo dell’eone cristiano che ha voluto tradurre il “non-ancora” del Regno in una realtà immediata, attuale, in una mondanizzazione radicale del “già” che nella Chiesa possedeva una natura ancora sacramentale, mediata dalla gerarchia. Infatti, quel quinto paragrafo è titolato “«Non immanentizzare l’eschaton!»”, che richiama lo slogan elettorale col quale nel 1965 William Buckley, un intellettuale cattolico anticomunista, si era presentato come candidato per l’elezione del sindaco di New York, pur sapendo di non avere alcuna possibilità di successo, al punto che, a chi gli chiedeva quale sarebbe stato il suo primo provvedimento una volta eletto, rispondeva autoironicamente: “Chiederò il riconteggio dei voti!” (pp. 108 -109) In realtà, quello slogan si rifaceva alle posizioni di Eric Voegelin, espresse nel suo The New Science of Politics, in cui  si denunciava la concezione gnostica “che combina un’immensa fiducia nella capacità di dominio dell’uomo con la sfiducia circa l’attuale ordine delle cose” (p. 110), una concezione che finiva per produrre una distorsione dell’escatologia cristiana nella direzione di una sua attualizzazione/immanentizzazione. Ferraresi ricorda che la posizione di Voegelin era diretta innanzitutto contro i totalitarismi fascista e comunista, ma a suo parere (e anche qui si può concordare con lui) “l’analisi s’attagliava anche all’idea liberale, o meglio alla sua esaltazione parareligiosa che dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la diffusione di una versione liofilizzata dell’ipotesi della «fine della storia» ha preso il sopravvento.” (p. 112) Non è certo qui il caso di aprire una discussione sull’importanza della gnosi nella immanentizzazione del desiderio del Regno nella Modernità (un tema che comunque andrebbe approfondito); in ogni caso, ciò che è rilevante è il fatto che anche per Ferraresi “la tendenza o tentazione di immanentizzare l’eschaton è alla radice dell’esperimento americano”. (p. 114) Dunque, si può concludere che la diagnosi di Ferraresi rivela importanti punti di contatto con la critica di Epimeteo al liberalismo. Ci si può chiedere però, e innanzitutto lo si deve chiedere al cattolico corrispondente de Il Foglio da New York, se in quella immanentizzazione del Regno non vi sia qualche responsabilità del cattolicesimo stesso, cioè di quella fede per cui Dio si sarebbe incarnato in un uomo: non può essere che l’umanizzazione di Dio si sia infine rovesciata nella divinizzazione dell’umano? Hans Blumenberg ha sostenuto la nota tesi per cui “la legittimità del moderno” si costituisce nell’”autoaffermazione dell’umano”, nella sua autoredenzione dal caos. In uno dei saggi contenuti nel suo Le realtà in cui viviamo utilizza l’espressione traslatio imperii, che solitamente viene impiegata in sede storiografica per indicare il passaggio di poteri tra impero romano e sacro romano impero carolingio, per indicare metaforicamente il trasferimento di potere che si sarebbe verificato con l’età moderna da dio all’uomo, per concludere infine il suo saggio con questa pregnante osservazione: “La metafora più audace fu quella che cercò di abbracciare la massima tensione; essa è valsa più d’ogni altra cosa per l’autoconsapevolezza dell’uomo: proprio mentre cercava infatti di pensare Dio come l’assolutamente-altro, dava inizio irrevocabilmente al più difficile degli atti retorici: quello di paragonarsi a Dio.”
    Homo homini deus: questo dunque sarebbe l’esito finale, sul piano antropologico, dell’immanentizzazione del messianesimo e della cristologia. Harold Bloom (di cui Ferraresi cita l’importante contributo su La religione americana. L’ avvento della nazione post-cristiana, Garzanti 1994) descrive con tono empatico quell’identificazione che infine si sarebbe data tra la solitudine dell’individuo americano e il Gesù interiore: “L’eresia più diffusa tra tutte quelle che formano il tessuto connettivo della Religione Americana è appunto questa, la più sottaciuta e la più poetica di tutte le eresie: l’americano cammina, da solo, in compagnia di Gesù, in un intervallo di tempo in continua espansione, alla cui origine sono i quaranta giorni del soggiorno terreno del Figlio di Dio risorto.” (op. cit. pg. 42). Così, in questa identificazione, nell’interiorità dell’Io, tra il Sé e Gesù, l’individuo americano ha potuto pronunciare la sua confessione di fede: “Il messia sono io”. E allora si può davvero concordare con Ferraresi, quando al termine del suo lavoro così sintetizza il punto di unificazione delle varie componenti ideali del liberalismo americano: “Il preambolo dei loro comandamenti è: non avrai altro Dio al di fuori di Io.” (p. 174) Ma non un Io semplicemente individualista, bensì un Io messianico, una immanentizzazione del Messia cristiano.

Copyright | Privacy | Credits