Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico

L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)

Teologia politica
Ricerche, 29 novembre 2018

1. L’eone cristiano L’incidenza del paradigma teologico politico di fronte alla fine dell’eone cristiano potrebbe apparire esaurito. L’eone cristiano infatti ha costituito il fondamento e il compimento del Nomos europeo; ne ha determinato l’unità spazio-temporale in relazione ad una rappresentazione non generica del trascendente, ma cristologico-trinitaria. Con l’affermazione dell’eone cristiano si sono formate quelle architravi secolari della Chiesa e dell’Impero, che hanno permesso al continente europeo di diventare un mondo dalla lunga durata. Oltrepassando un monoteismo incapace di rappresentazione, il dogma Jesus est Christus e quello trinitario hanno permesso sul suolo europeo una forma istituzionale personalistica e un concreto limes dogmatico-geopolitico, in cui auctoritas e veritas si sono corrisposte. La confessio è stata essenziale per assegnare alla fides una rilevanza storica. Visibilità, rappresentazione, carattere personale dell’autorità sono stati tratti peculiari di una civiltà ancorata alla relazione tra unità politica e un trascendente trinitario. La rivelazione della persona divina e il conseguente radicale mutamento antropologico hanno fatto sì che il teologico non si sottraesse alla politicità dell’eone; dogma e spazio ne hanno guidato la storia.

    L’analogia tra ordo concreto-ordine divino si è dimostrata storicamente essenziale anche nel circoscrivere la potenza dell’annuncio messianico, in sé anarchico (d’altra parte anche la guerra civile porta in sé un radicamento messianico). Tuttavia nella stessa struttura dell’eone era già presente quella tensione che ne ha condizionato il destino. Infatti, al di là del contrasto tra Chiesa e Impero, sfociato in modo aperto nella lotta per le investiture, una tensione congenita era già presente tra il dogma dell’incarnazione e la forma geopolitica storicamente determinata. La missione redentiva del Figlio conteneva in sé una pressione espansiva verso l’appropriazione globale della terra, che inevitabilmente ha condotto alla deflagrazione dello spazio dogmatico definito dal limes europeo. Quella struttura istituzionale non è riuscita ad arginare la proiezione mondiale propria della funzione redentiva del messianesimo: “un Signore-un mondo” attestava infatti un’idea già implicita nella stessa cristologia e nell’attesa del Regno. Lo schema “già-non ancora”, che incorporava in nuce la struttura rappresentativa dell’eone e il suo rimando all’irruzione finale del Regno, veniva scardinato dall’imperativo dell’attualizzazione escatologica. Così la contemporaneità di Riforma e slancio verso l’appropriazione del mondo non appare casuale.
La rottura della Riforma, con la riproposizione della carica messianica originaria del cristianesimo e la volontà di relazione immediata con Dio, ha costituito la premessa e la linea di demarcazione per la trasformazione della conquista di un nuovo continente nell’edificazione di un Nuovo Mondo, che, pur basandosi sulla stessa veritas istitutiva del Vecchio Mondo, ha rifiutato la tensione tra “già” e “non ancora”. La “missione cristologica” ha travolto l’ordine istituzionale; la potenzialità implicita nel “già” ha fatto saltare ogni dilazione della parusia e messo in crisi le istituzioni rappresentative che nell’interim affondavano le loro radici. Si è spalancata così la via ad un messianesimo pneumatico universale, ad un pluralismo ecclesiastico e ad una proliferazione di sette. L’eone cristiano si è trovato di fronte alla globalità del mondo e al problema della sua appropriazione: Weltpolitik e dilagare della guerra civile internazionale sono sorte insieme. Nel contemporaneo processo di de-cosmizzazione appariva già inscritto l’esito del primato di una metafisica razionalista, di un convenzionalismo istituzionale e di un’antropologia centrata su una soggettività che ha trovato nella “certezza del cogito” una soteriologia mondanizzata. È a questo “sistema di legalità” che hanno fatto seguito una matematizzazione dell’ambiente e un processo di tecnicizzazione sociale.
    Alla lunga il sacrum experimentum, l’edificazione di un Regno anti-trinitario nella “terra promessa”, in cui il Dio cristiano aveva fatto esodo e conosciuto una radicale metamorfosi, si è dimostrato vincente. L’attualizzazione della potenza tecno-economica quale elemento consustanziale alla divinizzazione umana ha portato a compimento la funzione messianica redentrice dello Spirito: il coronamento di una seconda fase dell’eone, peraltro implicita già nella sua origine. La nuova creazione di un macros-anthropos, la rivelazione in interiore homine non è stata mediata da alcuna istanza esterna; l’incarnazione è stata reinterpretata come inabitazione dello spirito nell’umanità. Il Dio americano si è rivelato nella relatività delle singole verità settarie, nella libertà dello spirito che soffia dove vuole e si incarnato nel mercato delle opinioni industrialmente riproducibili. La Chiesa in Europa aveva trovato il suo coordinamento spaziale con l’Impero, la setta ha assunto la forma di una società democratica finalizzata al Regno della libertà; alla fondazione sul principio di rappresentazione dell’evento divino da parte della Chiesa, la setta ha contrapposto il principio dell’identità immediata con lo spirito; se la Chiesa era depositaria del dogma, la setta è stata il fulcro della formazione processuale della public opinion. La confessione di fede ha costituito il fondamento della decisione, pur recando in sé la possibilità del suo pervertimento; il dualismo cristologico ha retto finché è rimasto saldo l’ancoraggio teocentrico, dopo di che la cristologia, sganciata dalla Trinità e dalla sua rappresentazione ecclesiale, si è rovesciata in autoaffermazione, travolgendo ogni idea di istituzione politica. Il mito di una legittimità del Moderno ha risposto ad un’istanza autoredentiva, ad una pianificazione senza frontiere, caratterizzata da un futuro indefinito e dall’indifferenza verso il passato. La teologia politica è diventata così proteiforme: il prometeismo europeo di matrice cristologica e la mission escatologica americana, il mito politico nazionalista, classista o razzista che fosse e l’egualitarismo democratico.
2. Il compimento del messianesimo
    Il Moderno non solo si è sviluppato all’interno dell’eone cristiano, ma ne ha rappresentato il compimento. Questo processo di immanentizzazione prometeica ha condotto, nel Novecento, alla guerra civile tra mitologie politiche e alla catastrofe dell’annichilimento politico dell’Europa. Nel passaggio tra Ottocento e Novecento si è definitivamente consumata la crisi dell’eone cristiano. La separazione di teologia e politica, rintracciabile già nei decenni successivi al Quarantotto europeo, ha fatto riemergere nel Novecento una guerra civile tra Stati-nazione e miti politici. La conseguente crisi dello Stato e la pretesa “liquidazione” del teologico politico sono sfociati nell’autoreferenzialità dell’homo homini deus, di un “pleroma monoteistico” assurto a nuova matrice di un dominio globale. La “morte di Dio” ha riguardato solo il Dio europeo.
      La “seconda guerra dei Trent’Anni” ha consegnato l’Europa alla Weltbürgerkrieg tra le due potenze mondiali rimaste sul campo tra le macerie dell’eurocentrismo. La lunga “guerra civile” latente tra Stati Uniti e Unione Sovietica, pur nelle radicali differenze sistemiche, ha mostrato un’affinità elettiva nella comune tensione messianica ad edificare un “Nuovo Mondo” in cui attuare una pace escatologica tramite lo sviluppo tecnologico.
    L’esito del confronto è noto. Con la fine dell’Unione Sovietica l’“unità del mondo” ha preteso di tradursi in un’altisonante quanto velleitaria “governance globale”. In realtà si sono imposte un’unificazione tecnologica del mondo e una “economizzazione del politico” con l’intreccio tra democrazia di massa e internazionalizzazione dei mercati, della produzione e della comunicazione. Il tentativo di regolare una tale condizione di fluidità politica e omogeneità economico-sociale tramite istituti finanziari e potentati economici transnazionali si è tradotto in una sorta di “caos organizzato” planetario. Infatti l’attuale concezione sistemico-geopolitica concepisce l’arena internazionale non tanto caratterizzata da dinamiche conflittuali tra spazi continentali, quanto da interazioni tra sistemi sociali orientati da fattori di calcolo, regole vincolanti e procedure predeterminate. Alla progressiva corrosione del personalismo istituzionale, proprio della sovranità teologico politica europea, ha corrisposto il riemergere degli “antichi dei” e dell’immagine del nemico assoluto. Nella Weltgesellschaft post-umanistica non può esserci posto per alcun miracolo; si ammette il progresso, l’innovazione, la curiositas, magari anche la trasformazione, ma non la rottura di ciò che eccede.
      Nel compimento del messianesimo la potenza funzionale del sistema sociale si è imposta come struttura costitutiva delle forme della convivenza e ha inciso sulla stessa base antropologica, mutando condizioni oggettive e soggettive e decretando la fine della nozione di “popolo” come soggetto politico, a partire dall’archetipo “popolo di Dio”. La spasmodica ricerca di infinite possibilità, la produzione di una massa anonima di individui quali puri enti, sempre più massificati e dai bisogni incomprimibili si sono dimostrate indispensabili per la stessa autoriproduzione del sistema sociale, quale vera e propria struttura soteriologica, propria di una post-histoire. Ogni forma istituzionale è stata assimilata a “funzione complementare”, a organo di prestazioni amministrative di ordinamenti acefali e onnipervasivi. La fine dell’eone cristiano ha così trovato una sua rappresentazione nell’Europa del dopoguerra, nella sua lenta, contrastata, ma pervicace integrazione economico-funzionale: una Gesellschaft der Gesellschaft, un sistema sociale neo-corporativo differenziato e autoreferenziale, dominato da logiche ferree, in cui “la mitica “società civile”, rappresentata da partiti e parlamenti, appare solo un languido ricordo, rispetto alla forza e all’influenza di Interessenorganisationen disseminate in un arcipelago di centri di imputazione del potere che hanno teso a ridurre i conflitti a tecniche di gestione. Tale Weltgeist del presente ha ridotto la politica ad ancilla, la teologia ad una dimensione dialogico-morale e ha consegnato lo scettro del comando ad un funzionalismo de-ontologizzato e de-personalizzato. “Tirannia dei valori” e potenza tecnico-economica marciano insieme e unite colpiscono.
    3. Il pensiero della fine
La consunzione di una bimillenaria struttura spazio-temporale ha rappresentato non solo la chiusura di un’epoca, ma l’eclisse del Dio cattolico e delle fondamenta delle istituzioni europee. Gli esiti odierni del distacco o della contrapposizione alla forma istituzionale sono ormai moneta corrente. Il Dio redentore è morto, non tanto perché la Chiesa cattolica, considerata in una prospettiva globale, sia divenuta politicamente irrilevante, quanto perché, lungo la vicenda dell’eone cristiano, il Dio redentore, smarrito con la Riforma il suo ancoraggio istituzionale, si è risolto nella pura funzione di redenzione, che infine si è immanentizzata non in un’antropologia autopoietica, bensì nella tecnicizzazione di una società globale. Tuttavia, proprio per questo processo di radicale immanentizzazione un tale “orizzonte di tutti i sistemi” mostra di soffrire di una mancanza di autodescrizione della propria unità e dunque di un punto di vista globale.
    Infondata, anche se indubbiamente dominante, appare allora l’equivalenza tra morte del Dio redentore e morte di Dio; al contrario, l’idea feuerbachiana di Dio, quale proiezione dei bisogni umani, va circoscritta alla figura del Dio redentore e, più in generale, allo spirito del messianesimo. In effetti, il mito della redenzione dell’uomo dalla propria costituzione può rappresentare un’espressione del “bisogno” umano di redimersi dalla propria finitudine. Sennonché una tale proiezione non può applicarsi ad un Dio che si relaziona al creaturale non a partire dai bisogni e dai diritti di quest’ultimo, ma nella forma di una vocazione, di una chiamata della creatura ad esprimere, nella propria finitudine, l’immagine del creatore. Non dunque un Dio redentore che, in ultima istanza, riassorbe in sé quell’alterità che egli stesso ha posto fuori di sé, ma un Dio che “chiama” e che chiede una risposta, pur nel perdurare di un’insopprimibile differenza.
Un “pensiero della fine” si dispone a cogliere il significato di un’eredità senza profezie o attese messianiche. La fine dell’eone cristiano impone una domanda radicale: “Chi è dio dopo la morte del Dio redentore?”. Qui si spalanca con urgenza il problema del lascito dell’eone cristiano: la dogmatica trinitaria, posta al di là del principio di non contraddizione e l’unità divina quale relazione interpersonale, caratterizzata da un grado di intensità di cui non è possibile pensarne il maggiore.
    Oltrepassare la diagnosi di una fine significa confrontarsi con il nucleo vitale della teologia politica. Tale riferimento all’autocoscienza europea si basa sulla convinzione dell’impossibilità della formazione di un ordinamento politico a prescindere da una relazione personalistica con il trascendente, per non sprofondare né in un facile scetticismo, né nel nichilismo decostruzionista. Ovviamente il solo uso di un tale orientamento di pensiero, nell’epoca della multiculturalità globale e del superamento dell’“eurocentrismo”, può suscitare il sorriso ironico dell’intellettuale “laico” europeo, così profondamente intriso di quella ipocrisia teorica che impedisce anche solo di prendere in considerazione l’ipotesi che l’esistente abbia un radicamento non nell’essere dato, ma in un trascendente interpersonale. È contro questa forma di conformismo intellettuale, per cui solo ciò che è falsificabile merita di essere pensato, che il trascendente va considerato una condizione ineludibile, anche solo per ipotizzare una fuoruscita dalla gabbia d’acciaio della razionalità funzionalistica di un sistema globale avviato ad una transizione da Occidente a Oriente.
La decisione di fondo, da un punto di vista teoretico, si gioca tra una cripto-metafisica del “possibile”, che pensa il reale come attualizzazione di infinite possibilità del possibile, e una concezione relazionale e personalistica del trascendente.
    In effetti, uno dei fenomeni più straordinari del pensiero europeo del Novecento è consistito nel rovesciamento della critica alla metafisica della sostanza e dell’entificazione dell’essere in una cripto-metafisica del possibile: l’Abgrund, da cui trovano scaturigine l’essere, il nulla e l’esistente. “Più in alto della realtà si trova la possibilità”: questo è l’heideggeriano assioma della metafisica del possibile oggi dominante in Occidente. Una tale metafisica rappresenta l’autentico fondamento di ciò che appare come relativismo e che in realtà coincide con la dogmatica secondo cui la pluralità, e innanzitutto la pluralità delle verità, esprime l’infinita potenzialità di attualizzazione del possibile e, per ciò stesso, una sua legittimazione. Una dogmatica, che in nome del rifiuto dell’assolutismo dell’assoluto, esime da una chiara decisione circa ciò che è vero e giusto. Contro questa cripto-metafisica, che intende il mondo come “possibilità delle possibilità” e, in ultima istanza, identifica libertà e possibilità, occorre riaffermare con forza il trascendente della fede monoteista come l’essere originario, radice dell’esistente, con la non insignificante variante per cui tale essere è pensabile non tanto in termini ontologico-sostanzialistici, quanto come un’identità costituita da una relazione inter-personale, come una identità che ha in sé l’alterità.
4. Analogia entis e politica
    Teologia politica appartiene a ciò che si potrebbe definire una forma di “pensiero concreto”, di rottura, intenzionato ad un personalismo trascendente. Il teologico politico non costituisce né una presa di posizione aprioristica, né un incantamento per formule di un pensiero conservatore, né una nostalgia per figure ed eventi irrimediabilmente trascorsi, ancor meno va confusa con una banale theologia civilis quale sacralizzazione del potere costituito. Estraneo ad una pretesa di filosofia della storia, o ad un’ermeneutica della relazione tra sfera del divino e del politico, ha rappresentato una costante nell’arco di sviluppo dell’eone cristiano, ne ha segnato in profondità la struttura ed è depositario non solo di una forza diagnostica della sua fine, ma anche di un’eredità quale orizzonte del destino politico dell’Europa. Nel teologico politico non sussiste né una totale separazione, né un’identificazione con il divino, bensì una tensione che connette differenze ontologiche, ma analogicamente correlate. Tale analogia è teologica in quanto riferita alla nozione di “immagine” e all’analogia entis, politica in quanto l’atto creativo rende coessenziale e vitale per la condizione umana l’alterità del nemico. Il confronto va rivolto allora direttamente al cuore della struttura teologica.
      È l’apertura al trascendente che determina un orizzonte di senso e una forma antropologica. La relazione personale al trascendente è ciò che c’è di più concreto, di più incisivo sulla realtà data; per una forma istituzionale è imprescindibile tale relazione. Dare senso significa allora un rimando al rapporto immemoriale tra rappresentazione politica e trascendenza trinitaria. L’“ordinamento concreto” dello spazio europeo, in cui fede e istituzione hanno promosso uno “stile di vita” e un agire politico, ha trovato la sua espressione teoretica appunto nel teologico politico. Se l’eone cristiano è stato l’evento imprescindibile della costituzione dello spazio politico europeo, disarticolarne la struttura ha significato ridurre la teologia ad una corrente di pensiero tra le altre e la politica a pratica amministrativa, a governance.
    Ancor oggi teologia politica significa lotta per un potere costituente, per la possibilità di un’intersoggettività, non come semplice apertura all’altro per via empatica, ma radicata in un trascendente ontologicamente costituito da una relazione trinitaria inter-personale.
      Fare irrompere una forma d’autorità, di direzione nel cuore dell’odierno sistema sociale rappresenta l’atto più radicale per scuoterne le fondamenta e contrapporre all’attuale fisionomia antropologica un’antropologia teologico-politica, in cui la dimensione verticale del rapporto con il trascendente (la somiglianza) incrocia la dimensione orizzontale della relazione con l’altro infra-umano, aperta alla possibilità dell’inimicizia (la dissomiglianza). Questo tratto propriamente umano-creaturale dell’imperfezione rende il politico non immediatamente connesso al tema della polis, ma al contrario: il politico antecede l’unità politica e la fonda. Così ogni ambito dell’esistenza umana può essere politicizzato e, in ultima istanza, anche l’attuale de-politicizzazione e la cosiddetta “egemonia sistemica” economico-finanziaria sul politico non rappresenta altro che una modalità della decisione sull’altro: al politico l’umano non può sfuggire. La questione del politico, della decisione sull’amico/nemico è strettamente connessa alla vocazione della persona creata come immagine analogica del divino. “Analogica” nel senso dell’analogia entis, secondo cui tanto grande è la somiglianza tra uomo e trascendente, tanto maggiore è la dissomiglianza. Tale somiglianza tuttavia non va rintracciata nella dimensione razionale, quale connotazione della persona creaturale, secondo la tradizionale definizione di persona data da Boezio, ma nella vocazione della persona creata alla relazione interpersonale, ad immagine del creatore. Così la dissomiglianza non risiede nella mortalità del creaturale, nella sua “contingenza” ontologica, bensì nella possibilità della negazione, una possibilità di decisione che è esclusa nella relazione endodivina per il suo stesso grado di intensità. Con la creazione la persona umana è “gettata” nella decisione sull’amico/nemico e il politico diventa elemento “esistenziale” dell’umano. La creazione ha coinciso con la creazione del politico. Una tale “differenza ontologica” chiama alla decisione politica non ad una generica relazione sociale, alla mediazione da parte di un’autorità della veritas nel mondo.
    Ora, se teologia politica indica il nucleo di una decisione fondamentale che non rimanda alla pragmatica legalità dei poteri vigenti, ma all’ethos di un’autorità, la cui legittimità non corrisponde all’immediatezza della condizione mondana, si impone allora la riflessione sulla possibilità di un altro nomos a fondamento trascendente in un mondo globalizzato. I cardini teologici che danno evidenza alla politica e l’immagine di un’aristocrazia politica appaiono i presupposti di questa sfida.
      5. Autorität als Beruf
    È nella dimensione creaturale, quale ambito proprio della decisione politica, che si apre la possibilità del riconoscimento dell’inimicizia. Il concetto di teologia politica e quello di nemico si tengono. Se la crisi dell’istituzione ha travolto l’idea teo-logica di Dio e ha disconosciuto la figura del nemico, annullando ogni orizzonte di senso, la decisione politica circoscrive la potenzialità dell’inimicizia. Chi non sa chi è il proprio nemico, non riconosce più neppure l’amico, dopo aver neutralizzato ogni alterità. Se la persona creaturale rappresenta la possibilità del nemico e la creazione è creazione del nemico, la decisione sul nemico presuppone una forma d’autorità, un’“istituzionalizzazione dell’amico” in relazione al trascendente, ancor prima che alla storia. Fa parte dell’idea di istituzione la rappresentazione personale, un ethos teleologico e l’intrascendibilità del conflitto. Un’unità politica non può sottendere una semplice operazione politico-culturale o essere un portato di eventi storici, bensì necessita di un orizzonte più vasto e profondo, capace di trascendere la pervasività del sistema sociale. Chi disconosce una tale “trascendenza esistenziale” è destinato ad abbassarsi al suo tempo e a subirlo.
L’istituzione, che riconosce e orienta un ethos, le relazioni concrete dei “mondi vitali”, ossia un’esistenza comune e uno spazio pubblico, permette di piegare le passioni naturali e di governare il proprio mondo; racchiude in sé, oltre al diritto, l’istanza personale dell’eccezione, la possibilità di una rottura sovrana degli apparati. Nell’eccezione si manifesta l’elemento strutturale della teologia politica, un nucleo personalistico quale significato profondo dell’analogia. L’atto creativo trova un analogon nel potere costituente dell’eccezione di una personalità istitutiva. Ad un mondo alla fine, pur nel suo apparente funzionamento, non si può che contrapporre un’unità politica costitutiva, una relazione d’autorità. L’autorità è vocata e connota un’aristocrazia politica, in cui si intersecano trascendimento esistenziale e universalità pubblica, distinzione e unità. Una tale aristocrazia politica non può che essere a priori, portatrice di una decisione in ultima istanza, non socialmente data, ma politicamente riconosciuta nell’assunzione dell’eredità trinitaria dell’eone. Auctor è chi dà rappresentazione dell’origine e l’aristocrazia politica incarna il senso, il fulcro dell’esistenza politica di una comunità. In quanto possibile forza costituente e garante dell’unità politica europea costituisce un concetto politico-polemico rispetto ad una democrazia ormai tutta interna ad un sistema sociale totalizzante e abitata da “ultimi uomini” privi di ogni motivazione.
    Le idee-forza di quello che è stato uno straordinario deposito della tradizione teologico politico cristiana non possono essere sbrigativamente relegate nel patrimonio archeologico di un trinitarismo languente; occorre saggiarne l’attuale capacità per spezzare questo eterno presente che ritorna Se le forme storiche assunte dalla politica europea non fanno più parte del nostro destino, è necessario allora riarmare il pensiero in presenza del dio nemico che ci sovrasta, per ripensare la stessa idea di unità politica. Di fronte all’attuale rappresentazione tecnica dell’antropologia, che affonda le proprie radici nella separazione di un razionalismo strumentale dall’autorità politica, appare urgente e decisivo ricondurre l’antropologia sotto il controllo razionale del trascendente. Un’antropologia teologico politica può restituire un’unità politica personalistica in grado di decidere l’insediamento storico di un’esistenza politica. Il mondo non va salvato, ma governato. Se la naturalità umana non coincide con la sua esistenza politica, senza alcuna pretesa di finalismo da filosofia della storia, l’individuo-massa va assunto con le sue passioni; queste vanno piegate ad una decisione in ultima istanza che sola può consentire una libertà contro un Sein-zum-Tode assimilato socialmente quale concezione di vita. Dopo l’appropriazione della storia da parte dell’umanità e la cacciata del Dio trinitario occorre svincolarsi da questo destino storico, non escatologicamente, bensì cercando, contro lo spirito dell’epoca, di forzare la Zivilisation del tempo presente. Si tratta non tanto di rendere esplicita l’assenza di un’autorità politica, quanto di mostrarne la sua improrogabile necessità. Se oggi, più che mai, una teologia politica europea va assunta come antistorica, la ricerca, pur in assenza di uno slancio dell’iniziativa pratica, va incentrata sul discrimine tra l’autocoscienza dell’Europa ad una propria vocazione ad una politica mondiale e il potere globale delle organizzazioni sistemiche. Ancora una volta il politico si presenta come “nostro destino”, ma un politico armato di un’autorità teologico politica. In questo tempo di transizione, naturalmente, tutto ciò si colloca ad un alto livello di astrazione; del resto, un tale surplus di astrazione è forse l’unica via, nelle condizioni date, per sfuggire ad una desolante razionalizzazione amministrativa.

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