La modernità come messianesimo immanentizzato
Ricerche, 24 novembre 2018
L’ipotesi interpretativa sulla quale si fonda questo testo è che il moderno non sia altro che messianesimo immanentizzato e dunque, in quanto tale, compiuto ed esaurito1. Si potrebbe ipotizzare che l’intero arco temporale della modernità potrebbe essere interpretato da un lato, nel momento genetico, come riemersione della carica esplosiva messianica, come sua liberazione dalla forma cattolica nella doppia frattura del limes della res publica cristiana, con la scoperta del Nuovo Mondo e con la rottura dell’unità dell’ecclesia, e con la Riforma protestante e in particolare con le sue correnti più spiritualiste; dall’altro lato, nel momento escatologico, il moderno appare come l’inabissarsi della trascendenza messianica e della sua funzione di redenzione e dunque nell’autoaffermazione dell’umano e nell’immanenza del sistema sociale globale a differenziazione funzionale in quanto “regno della possibilità”. Ma in tal modo siamo già giunti alle conclusioni e quindi è necessario riprendere il discorso sul messianesimo nella sua forma cristiana.
Come è evidente, nella lunga storia del messianesimo, nel momento del passaggio dalla sua origine ebraica alla sua radicale reinterpretazione cristiana, un punto di concentrazione decisivo e fondativo di svolta si è avuto con la trasformazione dell’annuncio del Regno nell’evento della Chiesa. A partire da tale imprescindibile snodo, la struttura temporale sottesa al messianesimo si è radicalmente trasformata, perché dalla pura proiezione verso un futuro, che, per quanto imminente, si delineava comunque come quel “non-esserci-ancora” che caratterizzava il messianesimo pre-cristiano, si è dato il passaggio alla ben nota struttura di tensione temporale tra un “già” e un “non-esserci-ancora”, in cui il luogo centrale era occupato da un evento che si era già dato nel passato, che permaneva in dimensione sacramentale nel presente e si proiettava verso un futuro compimento che tuttavia era già stato anticipato nell’incarnazione-passione-morte-resurrezione di Gesù di Nazareth, il Figlio dell’Uomo Figlio di Dio. Tuttavia in questa radicale metamorfosi il contenuto messianico veniva conservato e, soprattutto, non andava perduta la sua dimensione trascendente: innegabile era la messianicità della formula di base della fede cristiana, “Gesù è il Cristo”, cioè il Messia, ma evidente era anche il suo radicamento nel trascendente, poiché il Cristo era comunque il Figlio del Padre celeste, il Figlio del Dio Creatore. Nello stesso tempo, inoltre, la relazione del Figlio col Padre faceva sì che il radicamento nel trascendente non si traducesse nella novitas di una genesi dal “totalmente altro”. In tal modo, e ciò è storicamente illustrato dalla lunga lotta della giovane chiesa contro la gnosi cristiana, veniva riaffermata l’unità in Dio tra creazione e redenzione che l’evento del Cristo avrebbe potuto mettere in discussione: non “nuovi cieli e una nuova terra”, ma la terra del Padre era il luogo di radicamento del Regno del Figlio, che già a partire da Paolo di Tarso, nell’autocoscienza della comunità e della sua aristocrazia episcopale, si trasformava in Corpus Christi mysticum, un “corpo”, tuttavia, in cui la dimensione mistica dell’unità immediata del credente con il divino veniva rigidamente mediata dalla struttura gerarchica che tale “corpo” informava. Che dunque il “già” del Corpo di Cristo, ossia dell’incarnazione, si incarnasse infine nello spazio dell’Imperium e che, nella travagliata transitio Imperii rappresentata dalle migrazioni dei germani verso la costituzione di un rinnovato Sacrum Imperium, la Chiesa gerarchica abbia potuto esercitare un ruolo decisivo può essere assunto quasi come un destino. Il corpo di Cristo trova nell’Impero il suo spazio storico.
Dunque, l’annunciato avvento del Regno escatologico-messianico si è infine dato come il corpo sacramentale di una chiesa, nella sua correlazione spaziale e istituzionale con l’Impero, in cui l’
auctoritas interpretandi costituiva la mediazione imprescindibile nei confronti di quel Nuovo Testamento in cui si era già data la Parola definitiva di Dio, il
Logos. In estrema sintesi, nella chiesa e nell’impero il Regno si era istituzionalizzato. “Istituzione”, in quanto
auctoritas e
potestas, è la parola-chiave dell’Europa cattolica della Tarda Antichità e del Medioevo, de-istituzionalizzazione, funzionalizzazione e organizzazione, ossia “sistema”, saranno le parole-chiave della tarda modernità.
Il termine “istituzione” può generare un’impressione di staticità sulla “lunga durata”, ma, nel caso dell’ecclesia medioevale si tratta di un’impressione fuorviante. Infatti, con tale interpretazione si dimentica che il Corpo istituzionalizzato di Cristo, nella sua apparente staticità, ha comunque esercitato una funzione universale (oggi si direbbe “globale”), che si riassume nella parola “missione”: la missione redentiva del Figlio si era tradotta nella “missione apostolica”, che aveva già consentito ad una setta ebraica di rivolgersi, pochi anni dopo la morte del Cristo, all’ecumene dei gentili e non aveva mai smesso di funzionare come spinta propulsiva della “cattolicità”, che, in quanto tale, non poteva che avere un orizzonte universale. Ecco dunque che la respublica christiana da un lato è trattenuta nella sua forma spaziale euro-occidentale dal kathecon imperiale e dalla gerarchia ecclesiale, ma dall’altro lato, fin dai primi secoli del Basso Medioevo, ritrova una dinamica espansiva che la conduce a colonizzare l’oriente europeo e a portare il conflitto in terra islamica, seppure con esiti effimeri.
“Missione apostolica”, cioè annuncio universale del “già” dell’evento del Cristo che si attualizzava nella forma giuridica della successione apostolica: sarà pur sempre sulla base di questa legittimazione che le potenze cattoliche attueranno, a partire dal XVI secolo, l’appropriazione delle terre scoperte al di là dell’oceano, dunque una schmittiana
Landnahme, e la loro spartizione, non a caso sanzionata dal sommo pontefice. Il primo grande passo verso la globalizzazione viene compiuto dunque ancora all’interno della forma di un messianesimo cristologico ed ecclesiale, apostolico romano.
Fatale sarebbe stata però la contemporaneità tra l’apertura degli oceani e la frattura nel Corpus Christi mysticum nella terra del Padre, ossia sul continente europeo2. Mentre l’appropriazione degli oceani ridefiniva radicalmente il rapporto tra terra e mare, cioè generava l’autentica “rivoluzione copernicana”, quella che doveva condurre ad un decisivo spostamento dei rapporti di centralità non tanto tra gli astri, quanto tra potenze terrestri e potenze marittime, la Riforma protestante liberava lo spazio interiore per quella “libertà del cristiano” che avrebbe fatto saltare il limes della forma istituzionale ecclesiale che aveva fino ad allora contenuto il potenziale espansivo ed esplosivo dell’annuncio messianico: con la Riforma il “non-esserci-ancora” del Regno si autonomizza dal “già” della sua forma cristologico-ecclesiale e in tal modo la struttura temporale dell’interim muta radicalmente. In fondo, anche la Chiesa cattolica medioevale “ha il viso rivolto al passato” e “volge le spalle” al futuro, per usare una formula di Walter Benjamin, perché il centro della rivelazione è costituito da un evento già dato che si presentifica sacramentalmente ad opera di una gerarchia sacerdotale fondata sul “carisma d’ufficio”, cioè su una struttura che mette in forma giuridicamente l’ispirazione dello Spirito. Al contrario, con la libera interpretazione delle Scritture e il sacerdozio universale, mentre si democratizza la Chiesa, la direzione dello sguardo torna a puntare su un futuro Regno adveniens.
Del resto, come è noto, in questa precisa direzione si era mossa, con due secoli di anticipo rispetto a Lutero, la profezia gioachimita del Regno dello Spirito e dell’Evangelo eterno. L’interpretazione del trinitarismo in termini di Trinità “economica” forniva a Gioachino la chiave per formulare una teologia della storia in cui il “già” del Cristo cessava di essere il “centro del tempo” per aprire un futuro che poteva davvero essere contraddistinto in termini di
novitas radicale. La libertà dello Spirito “che soffia dove vuole” faceva saltare la struttura gerarchico-sacerdotale del
Corpus Christi mysticum e trasferiva l’
auctoritas interpretandi in interiore homine, liberando così lo spazio per quella che sarebbe divenuta la netta separazione hobbesiana tra
confessio pubblica e
fides privata. Che ciò, infine, avrebbe condotto ad una radicale privatizzazione della religione e alla consegna delle fede interiore all’ambito irrilevante del “tempo libero”
3, non poteva certo essere presagito dagli entusiasti riformatori che combattevano per l’affermazione sulla terra (e sui mari) del Regno di Dio in lotta contro l’Anticristo rappresentato dal cattolicesimo imperiale ed ecclesiale.
Nello stesso tempo però, mentre nel Vecchio mondo europeo per centocinquant’anni si combatteva una guerra di religione che si concludeva a Westfalia con l’apparente neutralizzazione del conflitto religioso, al di là dell’oceano, nelle colonie inglesi del Nord-America puritani e spiritualisti di ogni sorta, cioè gli eredi di Giovani Calvino e Thomas Müntzer, erigevano nelle terre vergini del Nuovo Mondo la nuova Gerusalemme escatologica, l’autentico Regno dello Spirito. In effetti, è importante rilevare che in quella edificazione finirono per prevalere le correnti più spiritualiste e anti-istituzionali, rispetto al congregazionalismo dei puritani, e nello stesso tempo che lo spiritualismo nord-americano aveva ormai ben poco a che vedere con la carica apocalittica che caratterizzava l’ispirazione dello Spirito in Müntzer, dal momento che la rivelazione si dava esclusivamente nell’interiorità e quindi non era più in grado di informare di sé le istituzioni pubbliche4. In tal modo mutava significativamente il contenuto del messianesimo che si sarebbe imposto nei futuri Stati Uniti: non più la parola d’ordine della “giustizia” escatologica, bensì quelle della “libertà”, della “prosperità” e infine della “felicità” avrebbero segnato di sé il Regno che si separava dal Vecchio Mondo attraverso la linea di demarcazione dell’”emisfero occidentale”: la terra delle “opportunità”, in cui ogni individuo poteva sviluppare tutte le sue potenzialità, questo era il connotato principale dell’identità messianica americana. Così, nel tramonto di ogni istituzione ecclesiale e nel minimalismo delle istituzioni politiche, almeno fino alla Guerra di Secessione, l’”ordine spontaneo”5 del libero mercato finiva per essere l’autentica struttura sociale portante nel Regno di Dio americano, libera dalle incrostazioni storiche che in Europa si erano sedimentate e consolidate nei secoli e che frenavano almeno in parte la forza espansiva del capitalismo, la nuova figura della potenza del Regno che irrompe: organizzazione contro istituzione.
Ma anche nella vecchia Europa delle chiese e delle monarchie si assisteva ad una lenta trasformazione della pulsione messianica in direzione eticizzante, prima del riaffacciarsi dell’apocalittica nella figura del movimento operaio dell’Ottocento e Novecento.
Distrutta in radice l’insorgenza dal basso dello Spirito dopo le catastrofi di Frankenhausen e di Münster, lo spiritualismo persegue fino in fondo la via dell’interiorità (esemplare è il caso del pietismo) e perviene infine alla scoperta “moderna” della soggettività e della sua autonomia, lungo il percorso che va da Descartes a Kant e all’idealismo tedesco. In tal modo è compiuto un passo decisivo verso l’immanentizzazione del Regno, così come del resto sarebbe avvenuto in America: eticizzazione ed immanentizzazione vanno di pari passo, se l’eticizzazione è dettata da un soggetto autonomo da qualsiasi istanza che gli sia sovraordinata. Tuttavia, ancora in Kant il trascendentale tenta di tener fermo un legame con il trascendente e anche lo Spirito assoluto di Hegel può essere letto ancora in termini panteistici. Come è noto, sarà la Sinistra hegeliana e in particolare Marx a compiere il passo definitivo verso il rovesciamento della dialettica idealistica hegeliana nell’antagonismo della soggettività sociale operaia; dunque immanentizzazione dell’idea di Regno nella società lacerata dalla lotta di classe, ma nello stesso tempo rilancio della sua dinamica apocalittica, all’interno della quale il “non-esserci-ancora” del comunismo è anticipato nel “già” della conflittualità radicale del “lavoro vivo” socializzato, contro l’appropriazione privata da parte del “lavoro morto” cristallizzato nel capitale. Quando però il “già” della lotta si trasformerà nell’accumulazione dei risultati della lotta (aumenti salariali, diminuzione dell’orario, previdenza sociale, diritto di voto ecc.), allora sarà nato il riformismo e il “non-ancora” della parusia del compimento comunista verrà dilazionato dalla socialdemocrazia in un tempo indefinito, per esplodere infine, inaspettatamente, nel paese capitalisticamente più arretrato d’Europa: davvero “lo Spirito soffia dove vuole”!
Dunque, la classe come soggetto immanente del messianesimo e l’umanità, liberata da “Dio e lo Stato”, come orizzonte escatologico del Regno che viene e della pace escatologica in cui il “liberaci dal male” avrebbe dovuto infine tradursi nella liberazione dal “politico” e nella gestione tecnico-amministrativa del “lavoro sociale”.
Contemporaneamente, però, per tutto l’Ottocento il filone etico del Regno proseguiva il suo cammino e finiva per incontrarsi con la politica imperialistica delle potenze europee: la “missione apostolica” veniva riformulata in quella “missione di civilizzazione” che doveva legittimare le conquiste coloniali in Africa e Asia. Del resto, questa figura etico-culturale del Regno era già stata anticipata nel Settecento nell’idea di Lessing della Provvidenza come soggetto della “educazione del genere umano”. E tuttavia l’orizzonte universalistico che era sotteso a quella interpretazione filosofica e che implicava la possibilità dell’unità dell’umanità, non poteva essere raggiunto dalla “missione civilizzatrice” che legittimava l’imperialismo ottocentesco: ogni potenza infatti rivendicava la specificità della sua civiltà e quindi quella missione non faceva che supportare i conflitti di potenza latenti nella Weltpolitik, trasformandosi infine in nazionalismo. Così l’universalismo del Regno, che ancora era alla base dell’internazionalismo operaio, regrediva e si frantumava in quelle radici etniche che erano state all’origine della fase più arcaica del messianesimo ebraico. Non è quindi affatto casuale se, dopo la catastrofe della Prima Guerra Mondiale, che di quei conflitti di “civiltà” e di potenza era stato l’esito inevitabile, sia emersa la forma più perversa dell’immanentizzazione del messianesimo, quel “Regno millenario” nazional-socialista che avrebbe condotto il Vecchio Mondo al suo eschaton, alla quella finis Europae rappresentata dalla catastrofe apocalittica della “Seconda Guerra dei Trent’Anni”.
Così nel secondo dopoguerra, sulle macerie della centralità dell’Europa nella politica mondiale, finivano per imporsi le due figure storicamente più rilevanti del messianesimo politico nella modernità, gli Stati Uniti d’America e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ma, al di là del conflitto radicale che li ha opposti per più di un quarantennio, va messa in evidenza quella “affinità elettiva” per la quale quelle due figure messianiche possono essere considerate come le due facce della stessa medaglia e di conseguenza il loro antagonismo può essere interpretato come una “guerra civile mondiale”
6, l’ultima guerra infra-messianica a conclusione della quale si è potuto affermare, non del tutto a torto, di essere giunti alla “fine della storia”. Ciò che sostanzia quella “affinità elettiva” è la nozione di “sociocrazia”, che il Comte pensava ancora potesse edificarsi su una linea istituzionale che recuperasse l’eredità più autentica del cattolicesimo: al contrario, la potenza della “differenziazione funzionale” del sistema sociale ha finito per annichilire ogni residuo di ciò che costituiva l’architrave dell’ordinamento ecclesiale, ossia la nozione stessa di gerarchia.
Come è noto, Niklas Luhmann ha sostenuto che il passaggio al moderno è consistito nel passaggio da un sistema sociale stratificato, in cui i sistemi parziali, a bassa differenziazione funzionale, si relazionavano gerarchicamente l’uno rispetto all’altro, a un sistema sociale in cui la differenziazione funzionale si è pienamente dispiegata, conducendo alla autonomizzazione dei singoli sistemi parziali e nello stesso tempo generando un impressionante incremento della complessità sociale complessiva e quindi un correlativo aumento delle potenzialità del sistema nel suo complesso7. Da questo punto di vista, in sede di ermeneutica storiografica, si potrebbe sostenere che uno dei motivi principale per cui nella “guerra civile mondiale” ha finito per prevalere il messianesimo americano è legato al fatto che il messianesimo comunista, così come è stato realizzato in Unione Sovietica, conservava un tasso eccessivo di gerarchizzazione del sistema, fondata nel mitologumeno politico della “dittatura del proletariato” e del ruolo-guida del partito operaio. Sia ben chiaro che qui non si vuole certo assumere una posizione anti-gerarchica, in direzione del popolar-populistico “uno vale uno”: si vuole solo osservare che una gerarchia ha qualche speranza di reggere sulla lunga durata solo se è fondata su una istanza autoritativa, su di una auctoritas, che non può certo trovare i suoi principi di legittimazione in una qualsiasi evoluzione storica, fosse pure teoreticamente elaborata da una “filosofia della storia” a carattere immanentistico. Un armamentario di mitologia politica basato sulle nozioni di “classe”, “dittatura del proletariato” e “partito” poteva generare non una gerarchia autoritativa, ma solo un apparato di potere organizzativo che non poteva reggere il confronto con il modello molto più elastico ed articolato di un sistema di differenziazione funzionale in grado di sviluppare e gestire una complessità sociale decisamente superiore.
Ma su quali basi si può ipotizzare una identificazione del compimento del messianesimo nel sistema sociale a differenziazione funzionale? In primo luogo si deve sottolineare quella istanza del messianesimo che si esprime come liberazione della potenzialità umana dalle catene che la rinserrano: da questo punto di vista Prometeo può ben essere reinterpretato come figura dello Spirito, soprattutto se si riflette sull’intreccio che storicamente si è dato tra messianesimo e gnosi. Se il Messia non esercita semplicemente una sorta di “dittatura commissaria” che si limita a restaurare la “giustizia” del Dio creatore, violata dall’umanità peccatrice, ma si presenta sotto le vesti di un
Deus novus, il Dio buono che non ha niente a che vedere con il Dio giusto, allora l’evento messianico può istituire un Nuovo Mondo spirituale, libero dalla legge e dalla legalità del mondo materiale creato dal Dio giusto. Allora la “redenzione” non ha a che vedere innanzitutto con la “giustizia”, ma soprattutto con la liberazione della potenzialità.
Inoltre, se il Deus novus non è più un’entità personale trascendente che irrompe dall’alto, ma quell’”assemblea dei santi” con la quale già alcune apocalissi intertestamentarie identificavano il Figlio dell’Uomo, si apre la via che conduce ad una radicale immanentizzazione della novitas e che finisce per scorgere il soggetto messianico nell’unità dell’umanità prometeica. Quella via è stata effettivamente percorsa quando la forma dogmatico-istituzionale del “già” dell’incarnazione, che garantiva la relazione del Dio redentore con il Dio creatore, è stata spezzata da quella ecclesia spiritualis che presumeva di possedere una rivelazione che rendeva superflua ogni auctoritas interpretandi. Tale rivelazione ha trovato la sua espressione filosofica nell’hegeliano “sistema dello Spirito Assoluto”, che secondo Taubes addirittura “concludeva la storia dello spirito occidentale”8; ma soprattutto, se non si vuol ridurre il messianesimo a filosofia, quella rivelazione dello Spirito e quella “assemblea dei santi” si sono incarnate in una terra e in una classe, nella terra della libertà e nella classe che liberando se stessa avrebbe liberato l’umanità intera. La vittoria escatologica del Nuovo Mondo e del suo “ordine spontaneo” democratico-capitalista sull’istanza classista ha generato infine il pieno dispiegamento di un sistema sociale globale che ha fatto dell’”aumento di complessità” la sua cifra, perché l’aumento di complessità implica un aumento della potenzialità, della possibilità, funzionalmente determinata, di essere altro. Il sistema sociale a differenziazione funzionale, in cui anche la negazione è reinterpretata come “potenzializzazione”, può ben essere assunto come l’espressione più adeguata del compimento del “Regno della libertà in quanto possibilità”.
Da questo punto di vista la “redenzione”, il
libera nos a malo, è stata a sua volta immanentizzata e la nozione di bene/male è stata riformulata attraverso processi di scomposizione e ricomposizione che l’hanno ridefinita in termini di speranza di vita, reddito disponibile, livello di istruzione, sviluppo tecnologico e della ricerca scientifica ecc., indici che dovrebbero dimostrare il progresso all’infinito di una umanità finalmente liberata dalla decisione sul “politico” e pervenuta alla fine della storia nell’amministrazione tecnocratica del sistema globale, in cui la “redenzione” viene scomposta e affidata ai diversi segmenti del
Welfare.
Infine, se il Regno di Dio può essere definito come Regno della possibilità, allora ci si può chiedere se alla base del messianesimo non vi sia un’idea di Dio che conduce a quell’esito. Se, come in Taubes, si ipotizza che “un’interpretazione ontologica della teologia, (…), deve discendere fino all’arché del theos e, allo stesso modo, risalire al telos del theos”, diviene possibile sostenere “l’interpretazione del nihil come possibile orizzonte in cui il theos si rivela”9; in tal modo si perviene a quel nichilismo teologico in base al quale si può affermare che “la teologia e l’ateismo rivelano che Dio è il nulla”, oppure che “il nulla in quanto soggetto precede tutto”10. Ma se Dio si identifica con il nulla, tanto che “la creatio ex nihilo è una creatio ex Deo”11, allora cosa sarebbe “l’arché del theos”, dal momento che l’arché del theos non può essere identificato con il theos stesso?
Qui si avanza l’ipotesi che il nulla di cui qui si sta parlando non sia il contraddittorio dell’essere necessario, non sia un nulla assoluto in quanto “non essere necessario”, ossia il non essere che necessariamente non è e che dunque non può essere che un ente mentale non dialettizzabile con alcunché; il nulla in oggetto è il “non essere” in quanto contraddittorio dell’essere contingente, ossia è un non essere già temporalizzato, cioè è il “non essere ancora”. Ma il non essere ancora, così come il non essere più, o è la potenzialità dell’esserci attuale di essere altro o la potenzialità del possibile di attualizzarsi: il messianesimo, in ultima istanza, ha alla base una concezione di Dio non come l’“essere necessario”, come l’essere assoluto, l’essere incondizionato, ma una concezione del possibile come “
arché del theos”, una concezione in cui viene invertito il rapporto tra potenza e atto e dunque “la possibilità sta più in alto della realtà” e il possibile può essere pensato come l’
arché dell’
ens realissimum. Una teologia del genere, una teologia in cui Dio è solo una delle infinite possibilità del possibile, è la teologia più adeguata al funzionalismo sistemico e dunque il concetto di complessità di tale teoria sociologica è il concetto più coerente a tale teologia e al messianesimo che ne deriva, un messianesimo in cui il Regno è il “Regno della complessità in quanto incremento della possibilità”, una sorta di teoria dell’incrementabilità di Dio stesso in quanto orizzonte inattingibile della società.
Del resto, un dibattito incentrato su una problematica molto affine a quella qui molto sommariamente illustrata era già emersa nel momento genetico della modernità, ossia in quella discussione che ha impegnato la Tarda Scolastica sull’omnipotentia absoluta Dei, una questione in cui è in gioco esattamente la relazione tra la potentia e il theos, in cui si tratta di decidere teoreticamente se il theos è sovraordinato alla sua potentia oppure se l’omnipotentia absoluta è l’arché del theos. Ma in tal caso il possibile, in quanto dinamica del tutto ateleologica ed insensata dell’attualizzazione del non-esserci-ancora nell’esserci e dell’esserci nel non-esserci-più, sarebbe l’ambito non del caos, rispetto al quale sarebbe ancora possibile pensare una qualche forma di ordine, bensì l’ambito dell’assoluto caso in quanto radicale decosmizzazione.
Hans Blumenberg ha ritenuto di rinvenire in tale decosmizzazione e nella corrispondente “metafora assoluta” della “rivoluzione copernicana” la radice della “legittimità dell’età moderna” e dunque ha potuto affermare che il moderno si legittima non come secolarizzazione del cristianesimo e del messianesimo, ma come “autoaffermazione” dell’umano di fronte alla riduzione del cosmo a caso che la discussione sull’
omnipotentia absoluta Dei e la fine della centralità cosmologica della Terra avevano generato: “Il Medioevo finì quando, all’interno del suo sistema spirituale, esso non poté più conservare per l’uomo la credibilità della Creazione come
provvidenza, e quindi gli addossò l’onere della sua autoaffermazione.”
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Qui non si condivide questa ipotesi interpretativa, al contrario si ritiene che, nonostante le profondissime cesure che segnano la svolta epocale, le testimonianze della continuità tra il pre-moderno e la modernità lungo il filo rosso del messianesimo siano così evidenti da giustificare un’ermeneutica in chiave di secolarizzazione. Sembra piuttosto che Blumenberg retroproietti sulla genesi quello che invece è il profilo dell’esito della modernità, ma gli va riconosciuto il merito di aver rintracciato nella Tarda Scolastica il luogo di una impressionante anticipazione, molto più potente di quella gioachimita, della tarda modernità come compimento del messianesimo nell’omnipotentia absoluta non più di Dio, ma del possibile stesso in quanto dinamica temporale dell’attualizzazione dell’esserci dal non-esserci-ancora, dove la negazione “non” è, appunto, solo una potenzializzazione.
NOTE
1. Non si ha alcuna difficoltà a riconoscere fin dall’inizio che, con questo punto di vista ermeneutico, il presente intervento si pone nella scia di interpretazioni come quella, paradigmatica, espressa da Karl Löwith nel suo vecchio saggio degli Anni Quaranta su Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore – Milano, 2015. A differenza che in Löwith, però, qui il tema centrale non è costituito dalla “secolarizzazione” dell’idea cristiana di salvezza in una filosofia del progresso, quanto piuttosto l’immanentizzazione del nucleo originario del cristianesimo, cioè il messianesimo, in una cripto-metafisica del “possibile”.
2. Sull’inestricabile intrecciarsi di questi due momenti, conquista del Nuovo Mondo e Riforma, si veda un vecchio saggio di J.R. Seeley,
L’espansione dell’Inghilterra. Due corsi di lezioni, Bari – Laterza, 1928. Secondo Seeley nel XVI secolo “le vicende europee cominciano ad essere governate da due grandi cause ad un tempo, cioè la Riforma e il Nuovo Mondo, delle quali la prima agisce con forza decrescente, la seconda esercita un influsso sempre maggiore” (p. 70), mentre nel XVIII secolo “la questione religiosa con tutta la sua grandezza è tramontata, e la questione coloniale, suscitata da considerazioni terrene e materiali, ha preso il suo posto.” (p. 71) A nostro parere, sfugge a Seeley il fatto che nella fondazione delle colonie nord-americane e nella loro secessione dalla Gran Bretagna, le “due grandi cause” che generano l’epoca nuova, Riforma e Nuovo Mondo, si unificano in un solo potente fattore.
3. Si veda al riguardo per esempio N. Luhmann Funzione della religione, Brescia – Morcelliana, 1991: “Tramite la privatizzazione, la religione finisce nell’ambito del tempo libero, delimitato rispetto al lavoro e da questo determinato. (…) Oggi sembra evidente che la chiesa debba concorrere nel tempo libero con forti tendenze strutturalmente avvantaggiate”. (p. 228)
4. Al riguardo è accuratissima l’analisi di T. Bonazzi sulle colonie inglesi del Nord-America:
Il sacro esperimento. Teologia e politica nell’America puritana, Il Mulino, Bologna, 1970.
5. Il riferimento è all’intero corpus ideologico di F.A. Von Hayek.
6. Al riguardo è, ovviamente, imprescindibile la riflessione pluridecennale di Carl Schmitt.
7. Il riferimento obbligato è innanzitutto a N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990.
8. Taubes J.,
Escatologia occidentale, Garzanti 1997, p. 242.
9. Taubes J,, Messianesimo e cultura. Saggi di politica teologia e storia, Garzanti, 2001, p. 42.
10. Ivi, p. 48.
12. H. Blumenberg,
Legittimità del moderno, Marietti – Genova, 1992, p. 143-44.