Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico

L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)

Appunti di lettura : IL SEGRETO DEL POTERE di Damiano Palano
Interventi, 24 novembre 2018

La prima impressione che si prova durante la lettura di questo testo del docente di Filosofia politica della Cattolica di Milano è il piacere di reimmergersi in una corrente calda, conosciuta e antica, quella del realismo politico dei Tucidide e Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt, una corrente che Palano affronta con evidente  compartecipazione, ma nello stesso tempo senza alcun timore reverenziale, men che meno nei confronti di quello che è stato, dagli anni ’50 agli anni ’90,  il più importante rappresentante della “scienza politica” nell’università in cui Palano insegna, ossia Gianfranco Miglio, a cui viene dedicata un’analisi approfondita nel quarto capitolo,  significativamente titolato Arcana imperii, in cui il pensiero di Miglio viene esaminato nei suoi punti di forza, ma anche nelle sue profonde antinomie.

    In generale, la lettura di Palano risulta particolarmente efficace nel mettere in rilievo la contraddizione che percorre l’intero arco teorico del realismo politico, ossia il conflitto tra “natura e “cultura”, tra antropologia e storia. In effetti, il realismo politico, in quanto mira alla “verità effettuale” della cosa (Machiavelli), ossia alla realtà del politico così come si dà effettivamente, tematizza come oggetto specifico l’”essere” del politico, al di là del dover essere della morale, dei “quadri valoriali”, delle ideologie e delle utopie: ecco dunque la radice di una “ontologia” del politico, che si rivela essenzialmente come relazione di “dominio dell’uomo sull’uomo”, che si dà come un portato inevitabile della “natura” dell’essere umano nella sua dimensione di continuità evolutiva con l’animale, nella sua aggressività che infine mette capo alla metafora dell’homo homini lupus.
Di conseguenza la relazione politica si configura schmittianamente in base al “criterio del politico”, ossia alla diade amico/nemico, in cui tuttavia si dà una predominanza del secondo dei due termini, dato che la relazione di amicizia politica, ossia l’unità politica, si costituisce solo a partire dalla presenza, o anche solo dalla possibilità della presenza del nemico, si dà cioè fondamentalmente come risposta.
    Tutto ciò definisce il profilo di un’antropologia politica, con evidenti caratteri pessimistici, che presume di aver individuato sul piano teoretico le costanti meta-temporali del comportamento umano e quindi le “regolarità della politica”, un’espressione questa tipicamente migliana, un’antropologia che agisce come critica di tutte le ideologie che si illudono di poter “cambiare il mondo” e innanzitutto l’uomo, che ritengono di poter istituire, attraverso il progresso della civilizzazione, relazioni politiche che sappiano superare la dimensione intrinsecamente bellicosa delle relazioni umane e dunque, infine, di poter superare il criterio stesso del politico, ossia la relazione di inimicizia.
In quanto si autoconcepisce come “scienza”, cioè come un sapere dell’essere effettuale del politico, dell’ontologia del politico così come effettivamente risulta ad una osservazione “scientifica” dell’”animale uomo”, il realismo politico ha potuto quindi stabilire connessioni con altre scienze naturali per le quali la dimensione della “corporeità” del vivente è centrale: il riferimento evidente è all’etologia e alla biologia, nella sua declinazione in termini di sociobiologia. Lo sviluppo dell’intreccio tra il realismo politico come scienza e le scienze naturali ha condotto però ad uno smarrimento della specificità della dimensione umana del politico, tale per cui nella metafora dell’homo homini lupus la dimensione dell’animalità, del lupus, ha finito per configurare l’essenza stessa dell’umano, per cui la formula stessa si è risolta in una tautologia, perdendo così la sua significatività di traslato metaforico.
    A questo punto risulta particolarmente efficace il complesso argomentativo attraverso il quale Palano mette in evidenza come questo schiacciamento dell’umanità sull’animalità non sia tanto riprovevole sul piano morale, quanto piuttosto finisca per obliare un carattere imprescindibile dell’uomo, ossia il suo essere un “animale simbolico”, e di conseguenza “anche il realismo si trova costretto a riconoscere che nella ‘natura’ dell’essere umano – nella sua specifica ‘natura’ di animale simbolico – si trova una dimensione che non è riducibile alla sua richiesta di sicurezza o ai suoi appetiti.” (p. 78). Perciò, l’appiattimento del realismo politico per esempio sull’etologia finisce così per smarrire un fattore imprescindibile dell’agire politico dell’uomo e determina una sorta di amputazione ontologica dell’immagine antropologica.
Particolarmente preziosa è l’osservazione di Palano seconda la quale questa dimensione simbolica della relazione dell’uomo con il reale emerge nel cuore stesso del criterio del politico, ossia nel fatto che l’aggressività umana si configura con una radicale differenza rispetto a quella animale, dal momento che fin dall’epoca più arcaica nel contesto della massima intensità dell’inimicizia, cioè nella guerra, gli umani operano uno sdoppiamento della figura del nemico: “(…) nelle società umane il conflitto appare contrassegnato da quel paradosso per cui il nemico è allo stesso tempo riconosciuto come ‘uguale’ (e cioè come appartenente alla medesima specie) eppure rappresentato come ‘diverso’, come ‘animale’, come ‘sotto-umano’, o come espressione di potenze malefiche.” (p. 283) In questo doppio volto del nemico, da un lato come homo homini homo e dall’altro come homo homini lupus, si dà la specificità umana della massima intensità dell’aggressività in quanto volontà di uccidere e a partire da questa duplicità si sviluppano le elaborazioni simboliche del conflitto estremo.
    Da ciò deriva però, sullo stesso piano ontologico dell’essere dell’umano, che quel “dominio dell’uomo sull’uomo” che appariva come una costante antropologica finisce per determinarsi come imprescindibilmente condizionato dal punto di vista storico e culturale e di conseguenza, e questa è la conclusione finale della ricostruzione di Palano del dispositivo teorico del realismo politico, espressa nelle ultime righe del libro: “(…) la ricerca sul dominio dell’uomo sull’uomo non può che poggiarsi sulla magmatica superficie di relazioni di potere inevitabilmente mutevoli. Senza poter mai conseguire una conoscenza della ‘natura umana’ non geneticamente plasmata dai calcoli del potere, e senza poter mai davvero conquistare il ‘punto archimedico’ da cui decifrare gli enigmi dell’’animale uomo’.” (p. 291)
  Un altro aspetto del lavoro di Palano sul quale val la pena di soffermarsi è la critica così efficacemente sviluppata del percorso teorico di Miglio, che, partendo dalla sottolineatura della specificità dell’”obbligazione politica”, ha finito per smarrire nei suoi esiti conclusivi la differenza ontologica del politico e per consegnarsi ad una concezione più amministrativa e tecnocratica che politica. Infatti, nella sua ricostruzione dell’itinerario del magister comasco, Palano mette in evidenza come quell’interprete della politica come scienza abbia preso le mosse negli anni ’50 da una nozione dell’obbligazione politica che si atteneva al realismo del “domino dell’uomo sull’uomo” e quindi articolava il suo discorso nei termini dell’autonomia della politica dal diritto (vedi p. 175) e sviluppava un concetto di “vincolo politico” ispirato fondamentalmente all’ideal-tipo weberiano del potere carismatico basato sulla relazione tra il capo e il suo seguito (che nel contesto storico in cui ha operato Miglio poteva benissimo presentarsi nella figura del rapporto tra il capo-corrente di un partito di massa, eventualmente democristiano, e le sue clientele). Su questa base, Miglio poteva operare una netta distinzione tra “vincolo politico” e “vincolo contrattuale (non politico)” (p. 176), una distinzione che tuttavia andava progressivamente appannandosi, dal momento in cui Miglio si è aperto al confronto con l’etologia e ha elaborato, a partire dagli anni ’70, una concezione della genesi dell’obbligazione politica molto diversa da quella di Carl Schmitt. Mentre questi poneva a fondamento della nascita dell’unità politica una Landnahme, un’appropriazione della terra cui seguiva il Teilen, cioè la suddivisione della proprietà tra i contraenti dell’obbligazione politica, per Miglio, che in ciò seguiva le suggestioni della paleoantropologia e dell’etologia, la genesi dell’unità politica si dava nell’attività paleolitica della caccia e nella costituzione in tale attività del rapporto tra capo e seguito. In quella attività di caccia (che, lo si deve osservare, è manifestamente un’attività economica finché non compare un altro gruppo umano col quale si apre il conflitto sul … territorio di caccia, cioè su una Landnahme), il rapporto tra capo e seguito finiva per riconfigurarsi come un rapporto economico inerente la spartizione del bottino, una suddivisione che Miglio contrassegnava con l’espressione di “rendita politica” (su tutto ciò si veda l’ottima ricostruzione di Palano nei paragrafo 4 e 5, La spartizione originaria e Il sacrificio e la rendita, del capitolo del libro interamente dedicato a Miglio, il già ricordato Arcana imperii, pp. 191 – 235).
    Secondo Palano (e non si può che concordare con lui), questa nozione di “rendita politica”, apre nel sistema migliano di vincolo politico “un’aporia dirompente” (p. 236), una contraddizione tra “politica forte” e “politica minima”, che in ultima analisi non è che amministrazione: infatti, “quando riflette sul <cristallo> dell’obbligazione politica, e quando ne ricostruisce gli elementi strutturali, Miglio sembra riferirsi ad una concezione ‘forte’ della politica” (ibidem); all’opposto, però, “mentre scorge nel nomos la spartizione originaria del capo-caccia, e mentre espone la teoria della rendita politica, tende a pensare a una politica ‘minima’, ossia a una politica che si riassume nell’amministrazione (più o meno ‘ordinaria’) delle rendite di posizione, nella contrattazione e nello scambio fra ‘gruppi corporati’, nella distribuzione di redditi ‘garantiti’ ai clienti che offrono appoggio al patrono.” (p. 237) E per fortuna a Miglio è stato risparmiato di dover assistere alla trasfigurazione della sua “rendita politica” in “reddito di cittadinanza” …
In ogni caso, ciò che più rileva osservare è la parabola teorica di uno scienziato del realismo politico che, prendendo avvio da una concezione forte della politica e da una netta distinzione tra “vincolo politico” e “vincolo contrattuale”, è approdata infine al riconoscimento del carattere transeunte del politico e del suo esaurimento in modalità funzionalistiche ed economicistiche: “Negli anni Novanta, Miglio finisce con l’approdare all’idea secondo cui l’obbligazione politica è destinata a essere interamente ‘assorbita’ dal contratto, e cioè a un’idea per cui sembra addirittura che – insieme allo Stato – sia destinato ormai a venir meno anche lo stesso ‘patto politico’.” (pp. 234 – 235) Tuttavia, di fronte a questo esito impolitico del suo realismo politico, bisogna almeno riconoscere a Miglio di esser stato profetico: non viviamo forse tutti noi in un paese in cui un cosiddetto “governo” si costituisce sulla base di un cosiddetto “contratto”? Ma la stessa Unione Europea è forse qualcosa di più di un “vincolo contrattuale”? E non sta in ciò la radice più profonda della sua crisi?
      Giungendo ora alle conclusioni di questi brevi appunti sulla ricerca di Palano sul “segreto del potere”, che qui è stata sintetizzata in modo molto sommario, preme mettere in evidenza soprattutto il tema particolarmente stimolante, cui si è già accennato in precedenza, della duplicità della relazione col nemico, quell’homo homini homo che tuttavia nello stesso tempo è un homo homini lupus. A questo riguardo si rivelano di incomparabile profondità le osservazioni sviluppate da Carl Schmitt in alcuni passi del suo Glossario, quel diario teoretico che il giurista tedesco ha tenuto tra gli anni 1947 e 1951, il periodo più drammatico della sua esistenza, dopo il processo di Norimberga e la sua condanna all’esclusione dall’insegnamento. Nella pagina del 15 gennaio 1948, si può leggere:
“Il piccolo uomo, il parvus homo, diventa ancor più piccolo, un homunculus, mentre il grande uomo, il magnus homo, diventa ancora più grande, un Deus. Homo homini homo, ecco il punto zero dell’indifferenza pura. Qui la relazione non può conservarsi in pratica nemmeno per un istante. Per guadagnare tensione essa si scinde immediatamente in opposti poli, in elettroni carichi di energia positiva e negativa. L’uno sale, l’altro scende. Il magnus homo, ‘raggiunge la divinità’, diviene un fabbricante; il parvus homo diventa ‘più animalesco di un animale’, diviene un fabbricato. Quella di lupus è davvero una categoria ancora molto umana; il lupus è pur sempre una creatura in confronto ai fabbricanti del brave new world! Perfino il lupo mannaro.” (Glossario, Giuffrè Editore, Milano, 2001, p. 116)
    Questo brano, in cui la polarizzazione tra “fabbricante” e “fabbricato” allude alla de-umanizzazione specifica dell’”età della tecnica” e alla trasformazione della relazione politica nella tecnicità dell’amministrazione, trova il suo seguito naturale nella annotazione del 15 maggio:
Homo homini homo, ciò non significa nient’altro che: segnare il passo, proprio nel punto zero del concetto, che immediatamente si scinde a destra e a sinistra, in alto e in basso; homo homini lupus o deus. La tipica neutralizzazione nel punto morto consiste nel sopportare la divisione, ma non volervi partecipare attivamente; meglio segnare il passo, stare in bilico, sul filo del rasoio, attenendosi al trascendentale kantiano, fra trascendente ed empirico, rimanendo, svincolati e liberi in ogni direzione, nella limpida purezza del concetto, nella purezza intatta, cioè irrealizzata, dell’idealismo tedesco; dalla ragione pura alla pura irragionevolezza.” (ivi, p. 208)
    Come è evidente, questi passi di Schmitt si collocano nella medesima cornice problematica del “paradosso del politico” segnalato da Palano, dello sdoppiamento della figura del nemico in uomo e animale. Ed è chiaro anche quale sia l’obiettivo polemico di Schmitt, ossia quell’umanitarismo illuminista e idealista che presume di poter neutralizzare l’estrema problematicità della relazione infra-umana individuando il “punto zero” dell’identità egalitaria dell’homo homini homo, giuridicamente formalizzata nella figura del “cittadino” e tecnicizzata nella relazione apparentemente impolitica dell’amministrazione del Welfare. Tale neutralizzazione non può che fallire di fronte alla tensione implicita nell’amico/nemico e nella conseguente scissione estremizzante tra de-umanizzazione e divinizzazione.
Di fronte a questa costellazione di problemi, che non possono essere certo approfonditi in questi brevi appunti, il gruppo Epimeteo si muove da alcuni anni lungo la linea di ricerca di un “personalismo politico” che potrebbe essere riassunto nella formula homo homini persona, dove la relazione infraumana non si risolve nella indifferenziata identità dell’homo homini homo, ma mantiene la tensione e la differenza tra la naturalità immanente dell’homo e l’apertura alla trascendenza della persona, seguendo in un certo senso una sollecitazione contenuta in un altro passo del Glossario, quello del 18 agosto 1948:
    L’homme passe infinement l’homme. Applica questa frase all’assurdo homo homini homo e mettine alla prova tutta l’evasività.” (p. 268)
Tuttavia, è necessario precisare qui che il termine persona non è certo assunto nella genericità a cui è stato ridotto nel linguaggio comune, per esempio nell’espressione riguardante il “rispetto della dignità della persona”. Epimeteo assume il termine persona innanzitutto in contrapposizione a quella nozione di “individuo” che sta a fondamento della tradizione liberale; ma soprattutto va messa in evidenza tutta la specificità e la pregnanza di significato che la parola persona  ha acquisito a partire dal dibattito teologico sulle relazioni tra le tre persone di cui è costituito, per i cristiani, l’unico dio, in quel concilio di Nicea che ha segnato una svolta decisiva nel superamento di una concezione di dio come unità e identità indifferenziata e nell’affermazione della natura trinitaria del dio cristiano e delle sue “relazioni sostanziali”. Sul piano antropologico allora, persona finisce per significare “immagine di dio”, ma di un dio la cui identità è relazione interpersonale. Perciò la naturalità dell’uomo viene superata in questa apertura alla trascendenza che si dà nella nozione di “immagine di dio” concepita alla luce di quella metafisica della analogia entis, che meriterebbe una approfondita rivisitazione.
    Dunque, la formula homo homini persona può essere così riformulata: homo homini imago dei, la quale agisce come barriera contro ogni de-umanizzazione, ma anche contro ogni divinizzazione dell’homo homini deus, che sta alla base del rapporto carismatico tra il capo e il seguito. Ciò implica, inoltre, che il nemico mi rimanda comunque una imago dei anche nel momento della massima intensità della dissociazione e della contrapposizione, anche nell’atto estremo dell’uccidere. Allora il realismo, che riconosce la necessità, in determinati contesti, di questa intensità estrema, saprà anche riconoscere sempre nel nemico che ha di fronte l’immagine di dio, per quanto deturpata essa possa essere. Solo su questa base si può sperare di istituire un limite alla violenza estrema, un confine al suo travalicare nel sadismo puro, o nella criminalizzazione e/o patologizzazione del nemico, solo su questa base il nemico può configurarsi come “fratello”, secondo l’enigmatica sentenza di Ex captivitate salus: “Chi posso in generale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che mi può mettere in questione. Riconoscendolo come nemico, riconosco ch’egli mi può mettere in questione. E chi mi può mettermi realmente in questione? Solo io stesso. O mio fratello. Ecco. L’Altro è mio fratello. L’Altro si rivela fratello mio, e il fratello mio nemico”. (pp. 91 – 92, Adelphi, Milano 1987)
Tutto ciò però, evidentemente, implica un salto da una antropologia che, pur tenendo in sé la dimensione del simbolico e persino del “sacro”, rimane comunque chiusa in un orizzonte di immanenza, ad una antropologia teologico-politica e dunque un salto da una “ontologia del politico” ad una “teologia politica”.
    Del resto, una delle più efficaci rappresentazioni del realismo politico, in cui in uno schema di poche righe si mettono in connessione parole chiave come veritas, auctoritas, potestas, securitas, cioè lo schmittiano “cristallo di Hobbes”, viene definito dal suo autore “aperto alla trascendenza”.
 

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