Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico

L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)

Intervento all’ Università Cattolica
Ricerche, 31 maggio 2018

Innanzitutto, nell’esordio di questa breve comunicazione, a nome dell’associazione di ricerca Epimeteo, va segnalata una sorta di “affinità elettiva” sul piano teoretico e, ancora di più, esistenziale, rispetto al sentire che attraversa il libro di Mario, Dello spirito libero. Questa affinità emerge soprattutto da quel passo in cui Mario scrive: “… sentiamo acuto il pericolo della presunzione intellettuale, della saccenteria di chi fa le bucce alla storia del mondo. Ma ci muove la disperazione della ricerca. In qualche modo, in qualunque modo, (…), dobbiamo pur capire che cosa è successo”. Ecco, appunto, “la disperazione della ricerca”, questo è ciò che più ci accomuna e ci spinge ad avanzare ipotesi che tentino di far luce su ciò che si può definire come la catastrofe dell’Europa e quella del Movimento Operaio. Ora, dopo una discussione sul libro e un ascolto del recente Abecedario, abbiamo cercato di formulare schematicamente alcuni spunti di discussione.

    Ipotesi di ricerca, dunque, non molto di più, ma già solo questo è per noi molto. Da diversi anni il gruppo Epimeteo tenta di sviluppare un’ipotesi di ricerca centrata sulla nozione, certo non originale, di “fine dell’eone cristiano”. È evidente che si tratta di un punto prospettico diverso da quello che assume chi ritiene che il tema all’ordine del giorno sia l’esaurimento della Modernità. Dal punto di vista di chi tematizza la “fine dell’eone cristiano” il moderno non gode di alcuna specifica autonomia, non rappresenta un’autentica rottura rispetto all’epoca che l’ha preceduto. Secondo questa ipotesi interpretativa il Moderno non costituisce altro che il riesplodere di quel potenziale messianico che l’istituzione ecclesiale, Santa Romana Chiesa, era riuscita a mettere in forma per un millennio e mezzo. Del resto, il cristianesimo può essere considerato un movimento messianico che aveva saputo trovare la via della forma istituzionale, ciò che non è mai riuscito al movimento gnostico e, due millenni dopo, nemmeno al movimento comunista. Nella Chiesa cattolica l’istanza del “Regno di Dio” aveva saputo assumere forma giuridica e dotarsi degli strumenti per aspirare alla lunga durata e Mario è ben consapevole di questa grandezza storica di fronte ai forti limiti che su questo terreno ha mostrato il Movimento Operaio. Infatti in Dello spirito libero si può leggere: “La Rivoluzione vuole l’Istituzione: per durare, non decenni, ma secoli. Questo è Chiesa.”
Ebbene, per mille e cinquecento anni l’auctoritas della Chiesa gerarchica aveva saputo mettere in forma istituzionale il potenziale rivoluzionario contenuto nell’annuncio: “Il Regno di Dio è vicino”. Nella Chiesa gerarchica il messianesimo si è fatto istituzione autoritativa e solo su quella base istituzionale ha potuto incontrarsi con la forma politica imperiale, l’autentica eredità dell’età antica, e quindi istituire un ordine mondano che fosse rappresentazione di quello celeste: repraesentatio, tuttavia, non presenza immediata.
    Ebbene, il Moderno si apre con due eventi che hanno fatto a pezzi quel processo istituzionale: la Riforma protestante e la scoperta del Nuovo Mondo, per cui si può ben dire che la Modernità ha costituito, essenzialmente, un processo di de-istituzionalizzazione. In tutto ciò, tuttavia non si esprime una novitas radicale, come vorrebbe Blumenberg, bensì il riesplodere di ciò che sta nella radice stessa del cristianesimo, ossia il potenziale anarchico inscritto nell’istanza del Regno. Se all’annuncio del Regno si sottrae l’armatura istituzionale ecclesiale nella sua coordinazione con l’Impero, il messianesimo si traduce immediatamente in guerra civile, così come è avvenuto nella lunga fase delle guerre di religione sul continente europeo. La neutralizzazione del conflitto ad opera della nuova forma-Stato non ha saputo agire in profondità: il germe dello Spirito che soffia dove vuole ha così potuto incarnarsi nell’ordine spontaneo della “pubblica opinione” illuminista in Europa e addirittura presentarsi con il volto della Nuova Gerusalemme sul continente americano. Così il Regno ha trovato il suo spazio e la sua società. Infine, l’ultima grande figura messianica è emersa nella Vecchia Europa dalla dinamica di lotta del più grande movimento sociale di redenzione, di liberazione dall’alienazione del rapporto reificato tra operai e capitale: il movimento comunista. Si può concordare con Mario quando scrive: “Il comunismo in Russia e la democrazia in America sono le due enormi isole in cui il lungo viaggio del Moderno è approdato.” Ma si può anche precisare: non si tratta del lungo viaggio del Moderno, ma dell’esito finale del messianesimo e dunque, a nostro parere, è possibile interpretare la guerra fredda come una grande guerra endo-messianica che ha condotto il messianesimo al suo compimento. Il Moderno appare così come la fase finale del messianesimo, come la sua radicale immanentizzazione, quella immanentizzazione in cui si dà la fine dell’eone cristiano. Solo l’istituzione ecclesiale aveva saputo preservare l’annuncio del Regno da tale esito.
Se questa ipotesi interpretativa si rivelasse fondata, allora il problema di fronte al quale si troverebbe una ricerca disperata, ma radicale, si potrebbe definire in termini di “teologia politica nella fine dell’eone cristiano”, ossia nell’epoca della morte del Dio redentore. Questo tema peraltro sembra essere ben presente a Mario. Infatti nel suo libro si può leggere: “Intorno all’idea di salvezza, vediamo raggrumarsi una dialettica tragica tra il massimo di desiderio della libertà e il massimo di realizzazione dell’oppressione. Scatta lì dentro un meccanismo sistemico che porta a rovesciare la prospettiva liberatoria nel suo diretto opposto. C’è da chiedersi allora se questo fatto sia sufficiente per mettere mano a una critica dell’idea stessa di escatologismo messianico, critica dei fini ultimi, della meta finale, critica del concetto stesso di historia salutis.” Ebbene, noi avanziamo l’ipotesi che certamente il mito della “fine della storia” sia da respingere come volgare apologetica del capitalismo democratico; ma nello stesso tempo qui si vuole sostenere la tesi che l’eone cristiano implica la fine dell’historia salutis, ossia non la nicciana “morte di Dio”, ma certamente la fine di quel Dio redentore che agisce nella storia. Ciò significa che la domanda più radicale di fronte alla quale si trova la teologia politica riguarda l’identità stessa di Dio nella sua relazione con il mondo. Solo chi osasse, nella “disperazione della ricerca”, collocarsi al livello di questa domanda potrebbe tentare di pensare le condizioni di possibilità per andare oltre il sereno nichilismo al quale ci ha consegnato l’immanentizzazione del Regno.
    Ora, nello stesso momento in cui ipotizziamo una lettura della fine dell’eone in termini di morte del Dio redentore, siamo ben consapevoli che non si tratta di introdurre una rottura radicale con l’idea cristiana della trascendenza, quanto piuttosto di mettere a tema la possibile eredità che l’eone cristiano ci consegna. L’ipotesi del nostro gruppo è che tale eredità possa essere rinvenuta nel nocciolo demitizzato del Trinitarismo, ossia nell’idea che il trascendente non sia una unità indifferenziata, ma una identità che ha in sé la differenza, una relazione interpersonale che possiede un grado di intensità di cui non sia possibile pensare il maggiore. A partire da questa concezione interpersonale del trascendete è possibile sviluppare un’antropologia della intersoggettività che sfugga al destino di essere riassorbita nella logica sistemica della comunicazione. Solo come “immagine” della relazione interpersonale trascendente l’intersoggettività umana potrebbe pretendere di oltrepassare la forza di gravità dell’immanenza mondana e della riduzione dell’io a pulsione. Da questo punto di vista una teologia politica post-cristiana avrebbe a disposizione una tradizione ricchissima cui attingere, senza timore di sporcarsi le mani con la metafisica dell’analogia entis, ma nello stesso tempo capace di appropriarsi dei frutti più maturi della fenomenologia di Husserl e post-husserliana.
Mario ha scritto nel suo libro: “Occorre ignorare la sociologia. Né utilizzarla, né criticarla. E riscoprire invece l’antropologia: il buco antropologico del marxismo, il Novecento lo ha messo a nudo.” Dunque, riscoprire l’antropologia. Epimeteo cerca di delineare l’ipotesi di un’antropologia dall’alto che permetta di tracciare un’idea dell’umano in grado di sottrarsi all’odierno nichilismo individualista e alla matrice sistemica cui fa capo. In effetti, dietro l’immagine oleografica dell’homo democraticus si nasconde un individuo anonimo, privo di eccezionalità, già immortalato da Montaigne nella definizione “siamo tutti cavi e vuoti”. All’ipertrofia dell’ego odierno, connotato da pulsioni acquisitive indefinite e illimitate, ad una tale antropologia mimetica può essere contrapposta invece l’idea di persona, ossia di chi è aperto ad una relazione con il trascendente.
    Solo a partire da un’antropologia forte di questo tipo sarebbe allora possibile ripensare il senso dell’esistere umano alla luce delle categorie weberiane della vocazione e della responsabilità, superando il vicolo cieco soggettivistico, e in ultima analisi nichilistico, in cui lo stesso Weber era finito. Solo chi è vocato dall’alto e deve rispondere all’Altro che lo chiama, solo costui può pretendere di essere libero dalla gabbia d’acciaio della razionalità capitalistica ormai diventata sistema globale. Da questo punto di vista avanziamo l’ipotesi che una parola antica, una parola apparentemente reazionaria, come auctoritas, possa essere rievocata per connotare la forza di un’intersoggettività radicata nel trascendente, libera dalla cogenza della logica sistemica. Solo una auctoritas intersoggettiva istituita nella vocazione dall’alto e nella responsabilità di fronte al trascendente potrebbe essere ipotizzata come una forza in grado di sovraordinarsi al caos delle poliarchie globali. E non si tratterebbe affatto di teocrazia, anzi del suo opposto. La teocrazia, infatti, pensa il rapporto mondo-Dio in termini di presenza immediata del secondo nel primo; in fondo, il messianesimo de-istituzionalizzato è essenzialmente teocratico. Al contrario, noi cerchiamo di pensare il rapporto mondo-trascendenza in chiave di mediazione, di auctoritatis interpositio, e per pensare a tale mediazione non possiamo che riesumare un’altra parola carica di significato provocatorio: l’idea di “aristocrazia del politico”.
“Aristocrazia del politico”, questa è la risposta, ancora ipotetica, che Epimeteo si sente di dare all’esigenza posta da Mario di ripensare l’intersoggettività politica, quando scrive: “Penso a una forza civile, collettiva, organizzata, cosciente di sé, dotata di mezzi, motivata da un fine, non minoritaria e parolaia, non fondamentalista e violenta, critica di ciò che c’è ma credente in qualcosa d’altro rispetto a ciò che c’è, cioè capace di sostenere una fede, come scelta libera, e però senza paura di un riconoscimento di autorità.” È impressionante scoprire in questo passo una costellazione concettuale così simile alle nostre ipotesi disperate: “fede”, “scelta libera”, “riconoscimento d’autorità”. “Fede”, come decisione di ultima istanza sul senso dell’esistere, nella consapevolezza che anche il razionalismo, l’ateismo e l’edonismo sono fedi tanto quanto il teismo. “Scelta libera” perché siamo ben lontani dal pensare la persona come oggetto di decisioni eteronome. “Riconoscimento d’autorità”, perché il problema sta appunto nel riconoscere che la libertà si realizza proprio in tale riconoscimento intersoggettivo.
    Dunque, “aristocrazia del politico”, non semplicemente ceto politico, cioè una “forza collettiva” che non sfugge alla decisione tragica sull’amico/nemico e non si sottrae, irenicamente, all’identificazione del nemico, nell’illusione di una nuova frontiera dei diritti.
Infine, l’ultima parola-chiave, ossia “istituzione”, naturalmente assunta in un senso diametralmente opposto a quello che viene offerto, per esempio, al desolante spettacolo contemporaneo delle cosiddette “istituzioni europee”, ridotte ormai a sensali dei più vili e impotenti mercanteggiamenti (e non per questo nutiamo alcuna simpatia per la riesumazione di una qualche sovranità nazional-popolare). “Istituzione” è forse davvero la parola che si pone al crocevia di tutte le piste di questa disperata ricerca, poiché in essa si incrociano la relazione al trascendente, l’intersoggettività personale, l’autorità, l’aristocrazia del politico. Tutto ciò può ancora apparire solo un abbozzo lontano dal ritratto riconoscibile di una teologia politica che sappia raccogliere la sfida posta dalla questione dell’eredità dell’eone cristiano. E tuttavia noi crediamo che solo ponendo le domande all’altezza di questi problemi sia possibile sperare di aprire un varco di senso per il limes europeo di fronte ad un globo dalle infinite opportunità nichilistiche, in cui il possibile sta al di sopra dell’essere.
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