Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico

L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)

RITA DI LEO: LA VITTORIA DEL “SACRO ESPERIMENTO” SULL’”ESPERIMENTO PROFANO”
Ricerche, 12 aprile 2019

Era qualche tempo che non si leggevano i libri della Di Leo; ci si diceva: “È finita l’Urss, cos’avrà da dire di nuovo la Di Leo?” Poi l’anno scorso è uscito L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, per i tipi del Mulino, ed è stato davvero una sorpresa: ne veniva fuori una grande capacità di delineare i tratti fondamentali del capitalismo nella sua ultima fase, quella successiva al crollo dell’Urss e corrispondente al pieno dispiegamento della globalizzazione e della finanziarizzazione, ma emergeva anche la profondità con la quale l’autrice sapeva scavare nei presupposti antropologici di quell’”universo degli algoritmi”. Allora abbiamo deciso di leggere anche due libri editi precedentemente, cioè Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, uscito nel 2017, e L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa del 2012, entrambi editi da Ediesse.

    Da quella sorta di trilogia è emerso un quadro unitario in cui viene ricostruita l’intera storia del Novecento alla luce dello scontro globale tra il socialismo sovietico e il capitalismo europeo prima, quello americano poi, una analisi che si riassume in una interpretazione della contemporaneità appunto come “età della moneta”, come quell’arco temporale ormai trentennale in cui si è imposto quell’”equivalente generale” che consente l’universalizzazione dello scambio, in funzione della valorizzazione del capitale, come modalità imprescindibile delle relazioni infra-umane, una universalizzazione attorno alla quale si condensa l’identità antropologica dell’individuo post-economico del “fare per avere”, in cui lo scambio tra il più forte e il più debole non viene subìto dal secondo, ma accettato come un fenomeno naturale.
Tuttavia, prima di ricostruire come l’autrice illustra lo scontro tra “l’esperimento profano” del socialismo e il “sacro esperimento” del capitalismo americano, nella prima parte di questo tentativo di interpretazione unitaria dei tre testi della Di Leo cercheremo di delineare come l’ex “esperta dell’Urss” ha seguito il percorso attraverso il quale l’”uomo della moneta”, muovendo i suoi primi passi nell’Europa feudale, ha saputo acquisire cultura e potere e progressivamente intrecciare il suo destino con quello dell’aristocrazia guerriera e fondiaria, transitando attraverso quell’”epoca moderna” che Epimeteo interpreta come “messianesimo immanentizzato”, un’ipotesi ermeneutica che si è già cercato di argomentare in altri interventi su questo sito.
      L’”uomo della moneta” dal mondo del castello al “castello-mondo”
Il percorso dell’”uomo della moneta”, cioè del borghese, prima come mercante, poi come imprenditore manifatturiero viene descritto nell’introduzione de L’età della moneta, titolata Alle porte del castello. Spada e moneta (pp. 11 – 26) e nel capitolo primo, Dentro il castello. Il che fare degli uomini della moneta (pp. 27 – 69).
    Riprendendo la classica distinzione di Tonnies, l’Europa medioevale, attraverso il simbolo del castello, viene delineata come lo spazio-tempo della “comunità” in contrapposizione alla “società” che verrà successivamente istituita attraverso l’espansione dei mercati e la monetizzazione progressiva dell’economia.
L’elemento decisivo messo in evidenza dalla Di Leo è costituito dalla lunga durata della convivenza in Europa tra il crescente potere economico degli “uomini della moneta” e il potere politico degli “uomini della spada”, il quale era sì basato sulla forza, ma nello stesso tempo sacralmente legittimato, per cui il potere dell’aristocrazia non si fondava esclusivamente sull’esercizio del “mestiere delle armi” e sulla ricchezza che derivava dalle immense proprietà fondiarie, ma si istituiva su presupposti culturali, teologico-politici:
    “I tempi lunghi della trasformazione del mercante in dominus politico riguardano non tanto la sua potenza economica in costante ascesa quanto la ricaduta di quella potenza sul rapporto con il potere del principe, con <la spada> del principe.” (op. cit. p. 14) “Il potere è basato sulla forza ma ha il consenso divino e in questo intreccio virtuoso sta l’egemonia culturale delle élite <della spada>. La lunga subalternità degli uomini della moneta è un effetto naturale della disparità nei confronti di una élite che dalla sua parte ha la forza, la religione e la cultura.” (ivi, p. 17)
Secondo Epimeteo, la secolare convivenza con quell’aristocrazia teologico-politica ha consentito all’”uomo della moneta” di trascendere la mera funzione economica e di trasformarsi in quel ceto ideologico denominato “borghesia” che ha fatto della cultura dell’humanitas un habitus imprescindibile della sua identità sociale, a tal punto che l’”uomo della moneta” ha potuto già nel XIV secolo assurgere al ruolo di “consigliere del principe”.
    Secondo la Di Leo, “il cavallo di Troia” che, dopo secoli di subalternità, ha consentito agli “uomini della moneta”, a partire dal XVIII secolo, di acquisire pari legittimità rispetto agli “uomini della spada” è stato lo sviluppo di “una cultura politica critica del potere” (ibidem):
“Come è noto, la cultura critica del potere si è ispirata inizialmente alle utopie sociali cristiane, scozzese e inglese, e successivamente al pensiero illuminista francese. È la cultura che troverà un’occasione di sperimentarsi – in un contesto laico – solo nel Novecento, ma intanto lungo due secoli esiste e semina frutti.” (ivi, p. 18)
    Questa cultura critica ha potuto svilupparsi perché “come conseguenza del consolidamento del mondo della moneta erano emerse le figure professionali che servivano quel mondo, ossia coloro che sapevano leggere e scrivere, in una parola: gli uomini dei libri.” (ibidem)
A questo riguardo Epimeteo ritiene però di avanzare un’obiezione: l’arco temporale in cui si sarebbe data in Europa la diffusione di “una cultura politica critica del potere”, i due secoli che precedono il Novecento, sembra troppo ristretto; il riferimento alle “utopie sociali cristiane” apre uno squarcio su un periodo di tempo di più lunga durata. Infatti, secondo Epimeteo, “una cultura politica critica del potere” in Europa si configura fin dai primi secoli del Basso Medioevo nei movimenti ereticali, che avanzano una critica al fondamento stesso di uno dei due perni del potere nella res publica christiana, ossia la gerarchia ecclesiale, così strettamente intrecciata, anche da un punto di vista sociologico, con l’aristocrazia politica. Infatti, almeno a partire da Pietro Valdo, ben prima di Lutero, i movimenti ereticali contestano il monopolio dell’auctoritas interpretandi detenuto dalle gerarchie ecclesiastiche sulla fonte per eccellenza della rivelazione divina, sul libro per eccellenza, la Sacra Scrittura e questa contestazione sull’interpretazione del dato scritturale appare quasi come un’anticipazione del filologismo critico dell’umanesimo. In questo contesto “critico”, già nel XII secolo, sarà un monaco, Gioacchino da Fiore, a lanciare, del tutto inconsapevolmente, il grido di battaglia che incendierà tutta l’Europa nel XVI secolo, ossia quell’annuncio di una “terza età” nell’economia della storia della salvezza, cioè l’”età dello Spirito” che poteva essere interpretata, e lo fu, come una “critica del potere” del Padre e del Figlio e della sua rappresentazione nel potere sacerdotale. Era l’annuncio di quella ecclesia spiritualis che avrebbe trovato la sua piena espressione nella Riforma protestante, che anche la Di Leo individua come un passaggio decisivo lungo il percorso che condurrà all’affermazione degli “uomini della moneta”, poiché la riforma della chiesa si sarebbe intrecciata con la pulsione individualista di fondo degli “uomini della moneta” attraverso la rivendicazione della “libertà del cristiano”. In tal modo, le gerarchie ecclesiastiche, che avevano combattuto l’Impero in nome della libertas ecclesiae, si trovavano di fronte ad un’altra istanza di libertà che infine si sarebbe tradotta nella pretesa dell’”autoaffermazione dell’umano” di fronte all’”assolutismo teologico” della Chiesa cattolica, per riprendere la nota terminologia di Hans Blumenberg. Quel che qui si vuole evidenziare è il fatto che la “critica del potere” ecclesiale che costituiva tanta parte delle eresie medioevali e infine dell’eresia vincente, la Riforma di Lutero e di Calvino, generava infine una riemersione del fondo messianico della cristianità, di quella sorta di fiume carsico che scorreva nelle profondità dell’Europa cattolica e che era tornato prepotentemente in superficie con la crisi simultanea delle due istituzioni portanti della res publica christiana, la Chiesa di Roma e l’Impero germanico.
    Quell’esplosione messianica, che si espresse lungo 200 anni di guerre di religione, venne infine repressa dalla ripresa istituzionale della “forma-Stato”, che in un primo tempo, attorno al XVII secolo, si presentava come monarchia assoluta nazionale, l’unità teologico-politica del cuius regio eius religio. Questo passaggio è segnalato molto bene dalla Di Leo, come uno snodo decisivo per l’intrecciarsi del potere degli “uomini della spada” e della ricchezza degli “uomini della moneta”, soprattutto per quel che avvenne con l’evoluzione che lo Stato-nazione ha conosciuto attraverso la rivoluzione francese, dove, col mutare della forma-Stato, permaneva la continuità dell’”ideologia del nazionalismo militante” che infine, tra Settecento e Ottocento, avrebbe generato l’imperialismo europeo:
“Il nazionalismo militante è stato la leva che ha unito le politiche di potenza degli Stati-nazione e/o degli imperi con le politiche economiche degli uomini che producevano i mezzi necessari alle politiche di potenza.” (ivi, p. 20)
    “La militanza nazionalista è stata un collante identitario pari a quello delle guerre di religione del XVI secolo. Ha preso l’abbrivio con la rivoluzione francese e con Napoleone per diffondersi poi nei paesi europei che si stavano trasformando in Stati-nazione.” (ivi, p. 21)
Qui tuttavia si vuole insistere su quel tema del messianesimo, cui si è accennato in precedenza. La legittimazione dell’imperialismo europeo che conseguiva dall’”ideologia del nazionalismo militante” era costituita, come è noto, dalla “missione di civilizzazione” cui le nazioni europee erano chiamate di fronte a popoli e culture che venivano considerate “inferiori”. Ebbene, la nozione di “missione” è eminentemente messianica, dal momento che consegue dalla “missione redentiva” del Figlio incarnato e dalla successiva “missione apostolica” spettante alla Chiesa nella sua funzione di annuncio dell’Evangelo a tutti i popoli. Insomma, qui si vuol avanzare l’ipotesi secondo la quale quella forma-Stato che aveva represso il potenziale messianico che si era espresso per esempio nella guerra dei contadini in Germania o nel movimento ugonotto in Francia, nello stesso tempo aveva finito per assorbire e rielaborare quella potenza espansiva che sta al fondo dell’annuncio del Regno, della basileia tou theou.
    Del resto, quello stesso Ottocento che vedeva l’esplodere a livello globale della potenza coloniale degli Stati-nazione europei, conosceva anche l’emergere dal basso della società industriale, che si stava sviluppando a ritmi “cinesi”, di un nuovo soggetto sociale, quel proletariato che non aveva da vendere che la sua forza-lavoro e che non aveva da perdere che le sue catene, quel proletariato che sempre più veniva concentrandosi nelle grandi fabbriche e dunque che gradualmente conosceva prima una metamorfosi in classe operaia e poi in movimento operaio organizzato, nel momento in cui il soggetto sociale riusciva ad attrarre nella sua orbita “uomini del libro” che lo armavano di contenuti ideologici anarchici, socialisti utopisti, comunisti, all’interno dei quali finiva per imporsi una mitologia della classe operaia come nuovo soggetto redentore, che redimendo se stesso avrebbe redento l’intera umanità (un classico esempio di “rioccupazione”, per usare una terminologia blumenberghiana), una mitologia ateologico-politica che presumeva di fondarsi “scientificamente” sulla base da un lato di una filosofia della storia di radice hegeliana ridefinita in termini di “materialismo storico”, e dall’altro lato sulla base di una analisi “scientifica” della società e del rapporto sociale di produzione capitalistico. L’incrocio di queste due componenti “scientifiche”, che trovava la sua espressione paradigmatica nel Manifesto del partito comunista del 1848, finiva per generare una escatologia del soggetto sociale redentore, che nella sua funzione di redenzione si politicizzava e dunque raggiungeva il livello politico dell’amico/nemico, ossia dello scontro tra classe operaia e capitale come guerra di classe che avrebbe condotto alla fine di tutte le guerre e dunque alla fine della storia del politico. Tuttavia, quella politicizzazione rischiava di depotenziarsi a causa del fatto che il processo che avrebbe dovuto condurre all’esito escatologico veniva presentato come mosso dalla dinamica storica progressiva della contraddizione tra sviluppo sempre più sociale delle forze produttive (fino alla costituzione del mitico “general intellect”) e appropriazione privata del plusvalore generato dall’interconnessione tra lavoro vivo e innovazione tecnologica: se l’esito rivoluzionario era pensato come il risultato finale del progressivo ingigantirsi di quella contraddizione, allora era possibile proporre una posizione “riformista” che poteva collocare il kairòs della rottura rivoluzionaria nel “non-esserci-ancora” di un lontano futuro e nel frattempo capitalizzare la lotta operaia nel “già” di progressive conquiste sociali riguardanti il salario, l’orario di lavoro, la previdenza. Questo schema del “già”/”non-ancora”, che non rappresentava altro che una riformulazione dell’interpretazione cattolica dell’interim e che è stato sottoposto ad una serrata critica da Walter Benjamin nelle sue Tesi sulla storia, ha dominato il movimento operaio dagli anni ’70 dell’Ottocento, dopo il fallimento dell’”assalto al cielo” della Comune di Parigi, fino al 1914, quando la socialdemocrazia tedesca ha votato i crediti di guerra, dimostrando così inequivocabilmente come tra il kairòs rivoluzionario, immaginato in un lontano futuro, e il kairòs della decisione attuale sull’amico/nemico nello scontro di potenza tra gli Stati-nazioni, il progressismo socialdemocratico aveva finito col decidersi per il secondo. Ciò, come è noto, riapriva lo spazio per una interpretazione del soggetto operaio come attualità del comunismo nella disgregazione di quel sistema degli Stati che nella “pace dei cent’anni” aveva fatto da supporto all’espansione imperialistica del capitalismo: la decisione di Lenin, con il suo “Tutto il potere ai soviet!”, coglieva così l’attualità del kairòs rivoluzionario e conduceva il soggetto operaio al livello del politico e a quella vittoria rivoluzionaria che avrebbe segnato di sé il resto del Novecento.
Questa lunga digressione vuole solo mettere in evidenza come la storia del movimento operaio come soggetto agente nel politico non è stata altro che un fenomeno messianico, una delle due grandiose espressioni dell’immanentizzazione del messianesimo a-statuale, di quel messianesimo a-istituzionale che già nel Basso Medioevo aveva incrinato la gabbia ecclesiale attraverso la quale il potenziale anti-mondano dell’attualità del Regno era stato messo in forma e in condizione di interagire con il tempo e con lo spazio del “mondo”. La seconda delle due espressione dell’immanentizzazione di quel messianesimo originario, lo si sarà intuito, è rappresentata da quella “assemblea dei santi” che si era costituita nel Nuovo Mondo già a partire dal XVII secolo e che avrebbe espresso il suo “potere costituente” in quella rivoluzione degli anni ’70 del XVIII secolo che avrebbe dato vita non ad una “unità politica” statuale (nonostante il nome di Stati Uniti), ma ad una “unità politica” in quanto “società” post-statuale, la “società” degli “uomini della moneta”, la società del capitale e dell’uomo del  “fare per avere”: ma su ciò ci soffermeremo più oltre.
    Che il movimento operaio abbia rappresentato un fenomeno messianico sembra piuttosto chiaro anche alla Di Leo, benché ella non faccia mai esplicito riferimento a quel termine. Tuttavia, quando deve indagare il nesso decisivo tra intellettuali europei dell’Otto-Novecento e movimento operaio organizzato, scrive:
“(…) nei due ultimi secoli ha contribuito a fare un gran pezzo di storia europea quella scelta <degli uomini dei libri> di integrarsi in un universo alternativo al proprio. Innanzitutto, essi hanno dato all’universo lavoro una forma laica [immanentizzazione], pur attingendo a piene mani alla teologia cristiana, ai precedenti dell’universalismo cattolico [messianesimo], trasformando il soggetto da quello <degli ultimi della terra>, da <lasciate che i poveri vengano a me> cui riservare il paradiso in cielo, in soldati combattenti da istruire alla guerra in terra e di fargliela combattere da vivi [di nuovo, immanentizzazione del Regno].” (Ivi, p. 34) E alla pagina successiva accenna alla “ideologia, ispirata al principio del valore del lavoro e alla missione salvifica della classe operaia”. Dunque, se il soggetto politico operaio deve essere interpretato come l’immanentizzazione della pulsione messianica soteriologica, è alla luce di questa figura che devono essere indagati i motivi per cui l’esperimento settantennale del potere operaio in Unione Sovietica non ha retto alla prova della lunga durata e della confrontation con la “società” istituita dall’”assemblea dei santi”.
      Il fallimento dell’”esperimento profano” in quanto “regno della giustizia”
Prima di riassumere i punti nodali dell’analisi della Di Leo, è indispensabile ricordare qual è il tipo di approccio che ella dichiara di avere nei confronti dell’oggetto dei suoi studi. Non si tratta certo dello sguardo asettico dello storico o del sociologo o del politologo: piuttosto, quella di studiare il sistema sovietico e le ragioni del suo crollo ha rappresentato per lei “una scelta politica, più da militante sconfitto che da studioso accademico” (L’esperimento profano, p. 11) e probabilmente è stata proprio questa posizione teoretica partigiana ed empatica nei confronti dell’oggetto di studio ad accentuare l’acutezza dello sguardo e la durezza della valutazione.
    Ed è questo punto di vista di parte che la conduce a rivendicare con forza l’alterità politica reale, non meramente ideologica, dell’Urss rispetto allo “stato di cose presenti” nell’intero Occidente: in terra di Russia per settant’anni a partire dal ’17 si è dato davvero un rovesciamento del rapporto di potere tra operai e capitale: “Il 1917 bolscevico dimostrava che le relazioni di potere tradizionali potevano essere rovesciate, che la pratica degli accordi tra parti avversarie era ben più nell’interesse delle élite che firmavano gli accordi che di coloro per cui sarebbero stati applicati. Le sirene-Platone assunsero le fattezze di Lenin.” (Cento anni dopo, p. 53)
Di conseguenza, dal momento che la rivoluzione non consisteva in una “palingenesi sociale”, ossia in un graduale rinnovamento della società così come la intendeva da decenni la socialdemocrazia tedesca, ma nell’evento politico del ribaltamento del rapporto di dominio tra le classi, era naturale che il posto di comando spettasse alla politica, cioè alla classe operaia come soggetto politico, alla classe operaia che si era fatta “partito”. A questo proposito, però, cioè riguardo al rapporto classe / partito, dopo la fase della guerra civile contro i “bianchi”, si presentava uno snodo, una duplice possibilità: o il “partito operaio” veniva inteso come quella forma di organizzazione in cui si esprimeva il “potere operaio” in quanto potere degli operai, della classe operaia in quanto tale, oppure il “partito operaio” si definiva come quel partito che guidava la classe operaia nel suo ruolo di comando e di governo sul complesso della società. In questo secondo caso, il “partito operaio”, in quanto partito comunista che possedeva una visione della storia e della società, cioè una “coscienza di classe” sovraordinata all’interesse operaio immediato, avrebbe dovuto dimostrare la sua autonomia politica dall’autonomia operaia nella sua immediatezza. Come è noto, la seconda ipotesi è stata quella che Lenin ha tentato di mettere in atto con la Nep, nella quale un ruolo decisivo avrebbero dovuto avere gli intellettuali e i tecnici della borghesia russa; la prima invece era quella, risultata vincente, di Stalin.
    Su questi aspetti problematici della fase iniziale dell’”esperimento profano” l’analisi della Di Leo è impeccabile. In primo luogo, circa l’autonomia del politico in Lenin, ella si richiama a quanto “aveva chiaramente affermato già nel 1902, in Che fare? con l’asserire che gli operai non potevano essere lasciati soli, racchiusi com’erano nel loro orizzonte tradeunionista. Gli intellettuali avevano il compito ben preciso di guidarli oltre quell’universo. E nella sua breve stagione di re-filosofo, nei suoi cinque anni al potere, Lenin mise in atto politiche conseguenti: dall’annichilimento del <controllo operaio> del novembre-dicembre 1917, al sostegno della <Piattaforma dei 10> del 1921, sino alla Nuova politica economica del 1922.” (L’esperimento profano, p. 47)
In Cento anni dopo la Di Leo, per spiegare il rapporto tra Lenin e la classe, evoca il mito del “golem”, ossia quella “figura antropomorfica, creata a protezione della comunità ebraica, e divenuta poi quasi sinonimo del primo robot” (op. cit., p. 43, in nota 1). Secondo la Di Leo, l’”operaio golem” è una creatura di Lenin in quanto secondo il capo bolscevico la classe doveva essere eterodiretta dai rivoluzionari di professione, poiché solo essi potevano infondere nel golem lo spirito della coscienza di classe: “Lenin ha spiegato come spetta ai Platone ampliare ciò che vede il singolo operaio: la sua macchina, il suo reparto, il suo capo e pochissimo altro. Disegnargli un orizzonte senza confini spetta ai Platone nel ruolo di principali creatori del golem operaio.” (ivi, p. 43)
    È però evidente che il perseguimento sul lungo periodo di questa prospettiva, al di là della straordinaria personalità di Lenin, presupponeva un patrimonio di cultura politica di cui il ceto politico bolscevico era del tutto privo, data la pochezza teorica del “Marx politico”. Infatti, lo sviluppo della Nep, con il ruolo dirigente che in essa avrebbero dovuto giocare intellettuali e tecnici borghesi, avrebbe ristabilito il comando sulla forza-lavoro nel luogo di produzione in termini del tutto simili a quello in vigore nelle società capitalistiche e dunque rischiava di negare l’autonomia operaia in fabbrica; inoltre, sul piano sociale si sarebbe assistito al ricostituirsi di un ceto di borghesi arricchiti, a cui si sarebbero affiancati nelle campagne i kulaki che potevano vendere i loro prodotti al libero mercato. Ora, questa differenziazione sociale in termini di appropriazione della ricchezza socialmente prodotta avrebbe cozzato apertamente con quella istanza di “giustizia” che tanta parte aveva avuto nel motivare le lotte del movimento operaio da ormai più di un secolo. A questo riguardo, si deve ricordare che una delle componenti decisive dell’istanza messianica che percorreva l’Europa da due millenni era proprio la cosiddetta “dikaiosune theou”, quella “giustizia di Dio” a cui, in ultima istanza, si richiamava anche l’angelo di Benjamin nel suo sguardo rivolto al cumulo di ingiustizia di cui era fatta la storia mondana. L’ipotesi che qui si affaccia è che “l’esperimento profano” debba essere interpretato come una figura messianica profilata sul Regno di Dio in quanto attuazione nell’immanenza storica della “giustizia di Dio”. Questo carattere fondamentale del messianesimo comunista nel caso specifico dell’Urss ha giocato in netto contrasto con il perseguimento dell’autonomia politica del partito di fronte all’autonomia operaia in fabbrica; in quel frangente sarebbe stata necessaria una capacità di articolazione del potere di classe operaia, in quanto classe dominante, in termini di autonomia del politico da parte del partito e di autonomia operaia nel ricostituito rapporto di produzione capitalistico, una autonomia che attraverso la sua lotta “sindacale” avrebbe dovuto dinamicizzare il sistema industriale sovietico con il passaggio dall’estrazione di plusvalore assoluto a quella di plusvalore relativo, attraverso l’innovazione tecnologica. Ma tutto ciò era con ogni evidenza semplicemente impensabile per la dogmatica del rovesciamento del rapporto di potere come attuazione del “regno della giustizia”. Di conseguenza, la decisione di Stalin di interrompere l’esperimento della Nep e di avviare quella politica di piano che doveva in primo luogo assicurare il “controllo operaio” sull’erogazione della forza-lavoro in fabbrica, nel contesto dello “stato d’eccezione” della guerra di classe contro borghesi e kulaki, non può certo essere imputata ai soli limiti soggettivi di quel leader.
In ogni caso, riguardo alla nuova linea adottata da Stalin, così scrive la Di Leo:
    “Protagonista della svolta fu Stalin, successore di Lenin. Il suo obiettivo era di investire del ruolo dirigente la nuova élite di estrazione popolare, e il più presto possibile.” (L’esperimento profano p. 47) “Nella strategia leninista gli intellettuali erano i protagonisti <attivi> (…). Nella strategia staliniana vi fu uno stravolgimento dei precedenti ruoli, nel senso che divenne protagonista attivo il politico sovietico, disposto più al fare che al pensare.” (Ivi, p. 48) “L’intellettuale filosofo-re, indispensabile alle origini dell’esperimento, perse il suo ruolo creativo per assumere la funzione di addetto all’ideologia sovietica.” (Ivi, p. 49)
Nel momento stesso in cui metteva fine alla Nep a favore della politica di pianificazione e decideva la liquidazione dei borghesi, dei kulaki e del vecchio ceto politico bolscevico intellettualizzato, Stalin si dotava di una nuova base sociale:
    “I nuovi operai, semplici lavoratori manuali, contadini poveri di recentissima urbanizzazione, ex artigiani, ex soldati, divennero lo strato sociale di riferimento dell’esperimento ben più che la preesistente classe operaia. (…) E dunque la strategia contro gli alieni [gli intellettuali borghesi] finì per riguardare anche i vecchi operai, che furono considerati l’aristocrazia operaia e come tali difficilmente integrabili in un progetto che chiedeva fedeltà incondizionata.” (Ivi, pp. 22 – 23)
Fu da questa base sociale che Stalin selezionò i nuovi quadri di partito che dovevano sostituire i vecchi politici bolscevichi, ma anche i nuovi direttori nelle nuove fabbriche dell’industria pesante, i quali andavano a sostituire i tecnici di origine borghese che venivano gradualmente ostracizzati: il potere operaio doveva essere al posto di comando non solo nella politica, ma anche nell’economia. In tal modo a partire dagli anni Trenta si costituiva un nuovo “equilibro politico” tra partito e classe, che aveva il suo perno nel consolidamento di quel rovesciamento di potere che si era prodotto con la rivoluzione e che la Nep avrebbe rischiato di appannare: “L’equilibrio produceva consenso di massa al partito poiché teneva fede al rovesciamento sociale promesso: i lavoratori manuali erano andati al posto dei padroni in fabbrica e avevano occupato le loro abitazioni, i diritti politici erano stati negati ai borghesi e ai popi, e chiuse le porte dell’istruzione superiore ai loro eredi.” (L’età della moneta, p. 61)
    Tutto ciò garantiva stabilità politica e sociale, ma nello stesso tempo aveva un costo economico che sul lungo periodo avrebbe finito per essere letale per il sistema di potere sovietico. Infatti, il “modello Stalin”, riconoscendo un ruolo di classe dominante alla classe operaia non solo sul piano politico complessivo, ma anche nel rapporto di produzione, non poteva che generare bassa produttività del lavoro vivo e scarsissima innovazione tecnologica. Qui sembra emergere una antinomia del potere operaio alla radice del fallimento dell’”esperimento profano”. Il più acuto teorico dell’operaismo del secondo dopoguerra, Mario Tronti, in Operai e capitale, nell’ultimo paragrafo del saggio più importante di quel testo, Marx, forza-lavoro, classe operaia, un paragrafo significativamente titolato Lotta contro il lavoro!, ha già messo in luce questa antinomia:
“Il Doppelcharakter del lavoro rappresentato nelle merci si scopre così come natura duplice della classe operaia, duplice e insieme divisa, divisa e insieme contrapposta, contrapposta e insieme in lotta con se stessa.” (op. cit., p. 260) E nella pagina seguente scriveva: “La classe operaia, oggi, ha solo da guardare se stessa per capire il capitale. Ha solo da combattere se stessa per distruggere il capitale. Deve riconoscersi come potenza politica. Deve negarsi come forza produttiva.” E così è stato: in Unione sovietica la classe operaia si è imposta come potenza politica e si è negata come forza produttiva, proprio per aver conquistato quel ruolo di classe politicamente dominante. È un paradosso questo che viene messo ben in evidenza dalla Di Leo, quando, riportando brani da una sua vecchia intervista del 1992, osserva che per la classe operaia essere “classe dominante” ha significato innanzitutto sottrarsi al comando del capitale, ma anche del partito comunista, sull’erogazione della forza-lavoro in fabbrica: “[Gli operai] hanno dato a se stessi in quanto ceto dirigente i privilegi di cui hanno goduto tutti gli altri ceti dirigenti quando sono andati al potere. (…) Qual è il privilegio che vuole l’operaio che va al potere? È il privilegio di lavorare poco e di dirigere e di autoregolamentare il processo di estrazione del proprio plusvalore, se vogliamo esprimerci alla vecchia maniera. (…) In pratica, poiché avevano il potere, hanno impedito alla macchina di sostituirli e di dominarli e l’hanno fatta da padroni, il che dal punto di vista operaio significa lavorare poco.” (L’esperimento profano, p. 97) Questo rapporto di potere della classe sul lavoro morto, ossia sulla tecnologia, ha frenato moltissimo il passaggio dall’estrazione di pluslavoro assoluto all’estrazione di pluslavoro relativo finendo per bloccare lo sviluppo della produttività complessiva del sistema.
    Dall’insieme di queste considerazioni appare chiaro come la causa principale del fallimento finale del potere operaio non può essere rintracciata nelle responsabilità soggettive del ceto politico, che pure vi furono e furono importanti, soprattutto in termini di cultura e tradizione politica; qui emerge la domanda circa la possibilità stessa per la classe operaia di trascendere la dimensione dell’economico, il suo “statuto ontologico” di forza-lavoro, e di accedere alla dimensione del politico in quanto “governo”. È un interrogativo che si è posto anche Tronti, in un importante saggio apparso nel novembre del 1990 sulla nuova Rinascita diretta da Asor Rosa, titolato 1989 e dintorni. Grandezza e miseria del comunismo di Stato, dal quale vogliamo riprendere alcuni estratti che non hanno bisogno di commento:
“Ma tutto torna ad aggrumarsi sul fondo di un problema che riguarda la natura del soggetto che ha pensato e voluto e realizzato quel processo di trasformazione dall’alto. O meglio riguarda quella sorta di sostrato sociale del soggetto politico, quella vera e propria sostanza della forma partito, che è stata la classe operaia. Questa è risultata essere il primo esempio storico di classe sociale subalterna diventata dominante. (…) Gli operai al governo non sono riusciti a esprimere capacità di governo. L’obiezione dunque non è quella tradizionale, da sinistra, di un socialismo che ha dato il potere al partito invece che alla classe. Il partito bolscevico di Lenin era il partito operaio. E per questa via il giudizio sul socialismo si fa più grave. È nella classe sociale prima ancora che nel partito politico la ragione di fondo di un fallimento. (…) Un dubbio critico si insinua a questo punto del discorso, che non va coltivato visto che non porta al crescere di niente, che tuttavia va detto, perché tende l’arco della contraddizione fino al limite della rottura di quella corda che lega una tradizione. Forse la classe operaia non poteva essere comunque classe di governo. (…) Quel lavoro del negativo, quell’istanza distruttiva, quel nichilismo dei valori, che stanno all’origine della figura operaia, riemergono non appena preso il potere e prima ancora di passare a una funzione di governo, impediscono questo passaggio e di qui, da questo blocco, non si va a prendere su di sé l’interesse generale e a esprimere principi universali, perché questo è il cammino classico borghese, irripetibile contro di esso.”
    Dunque, è l’antinomia del Doppelcharakter della classe operaia, come forza-lavoro e come non-lavoro, che sta alla radice del blocco nello sviluppo non solo economico dell’Urss, ma della sua stessa dinamica di potere, la quale tuttavia conosceva una evoluzione che consentiva all’esperimento di restare in vita per alcuni decenni nel secondo dopoguerra, durante la lunga confrontation con gli USA, prima dell’implosione del sistema alla fine degli anni Ottanta. È quell’evoluzione che la Di Leo chiama “gestione popolare”, che ha mantenuto una forte linea di continuità con il “modello Stalin” per quanto riguarda l’autonomia operaia in fabbrica, ma che nello stesso tempo ha cercato di affrontare il nodo dei bisogni del singolo operaio al di fuori della fabbrica. Qui emerge un altro paradosso che contrassegna la condizione non della classe nel suo complesso, ma dell’operaio come singolo. È nota la condizione antinomica che vive ogni singolo capitalista, il quale ha interesse a pagare quanto meno possibile i suoi operai, ma nello stesso tempo ha interesse a che gli operai degli altri capitalisti possano godere di alti salari per poter comprare, come consumatori, le sue merci. Un paradosso analogo sperimenta anche il singolo operaio, il quale da un lato ha interesse a lavorare quanto meno possibile in fabbrica, ma nello stesso tempo deve sperare che gli altri operai lavorino quanto più intensamente e nel migliore dei modi, affinché egli possa, in quanto consumatore, comprare merci della miglior qualità al prezzo più basso possibile. Questa antinomia della condizione economica del singolo operaio è infine venuta alla luce anche nel cuore del sistema di potere operaio in Urss.
Questo complesso di problemi è illustrato in modo molto articolato dalla Di Leo nella sua analisi della “gestione popolare” che si è imposta con Kruschev e soprattutto con Brezhnev tra gli anni Cinquanta e Settanta, una formula che cercava di affrontare la contraddizione tra il potere di classe operaia che generava bassa produttività di sistema e le crescenti esigenze dei singoli operai come consumatori: “Sino allora il solo interesse riconosciuto legittimo era l’impegno comune per la realizzazione del progetto politico originario. Nel paese reale invece le aspirazioni del popolo vincitore si materializzavano in concreti interessi individuali: un buon lavoro, un appartamento e non una stanza in un appartamento comune, beni di consumo ma non come premi, bensì come prodotti di massa disponibili per la massa.” (L’esperimento profano, p. 61)
    Per tentare di affrontare questa antinomia di fondo del sistema, con la “gestione popolare” il partito comunista, tenendo fermo il controllo operaio in fabbrica e il controllo del partito stesso sull’esigenza di mantenere l’equilibrio strategico di potenza con il nemico americano, cominciava a concedere margini di autonomia alle singole repubbliche e, soprattutto, al nuovo ceto dirigente delle fabbriche, che era sì di origine operaia, ma ormai di seconda generazione e quindi esigeva una stabilizzazione del proprio ruolo di élite economica. In tal modo, si venne progressivamente sviluppando all’interno del sistema un dualismo tra la pianificazione ufficiale e la diffusione di isole di cripto-capitalismo informale in alcune singole realtà, in cui il rapporto di lavoro si individualizzava e quindi si monetizzava. Proprio questa monetizzazione del rapporto di lavoro ha rappresentato secondo la Di Leo un passaggio decisivo verso la crisi finale:
“La diffusione del denaro contante, guadagnato in nero, oscurò qualsiasi elargizione del welfare, trasformando in individuo consumatore il lavoratore che secondo l’ideologia produceva per il bene comune. (…) Dagli anni settanta in poi la crescente monetizzazione delle relazioni sociali ebbe un effetto dirompente definitivo sul legame tra partito e popolo.” (Ivi, p. 82)
    “Il denaro era divenuto una realtà imprescindibile nella lotta quotidiana di ciascuno per una vita migliore e migliore in senso materiale: più beni per sé nell’immediato e non sacrifici per un comune migliore futuro.” (Ivi, p. 83)
In ultima istanza, secondo la Di Leo, ed Epimeteo concorda totalmente con questa diagnosi, il sistema è imploso per le antinomie interne alla figura della classe operaia come classe dominante, antinomie che infine hanno condotto il sistema di potere operaio a crollare su se stesso perché incapace di competere col nemico non tanto sulla parità strategica militare, quanto nel confronto tra il “Regno della giustizia” e il “Regno della sovrabbondanza”. Così scrive infatti la Di Leo nella già citata intervista del 1992:
    “(…) alla fine hanno perso la competizione con l’altro sistema, dove c’erano veri padroni e gli operai erano operai, cioè lavoravano molto, erano sostituiti da macchine sempre più sofisticate e producevano beni di consumo di massa che agli operai, alle loro famiglie, alla società diventavano sempre più indispensabili per l’esistenza quotidiana. Da questo punto di vista, gli operai al governo hanno fallito. Essi hanno dato a se stessi come operai-padroni quello che volevano, ma hanno tolto a se stessi, alle loro famiglie e alla società sovietica il progresso tecnologico e quella diffusione del consumo di massa che sono diventate una soglia ineliminabile dell’esistenza delle società contemporanee.” (Ivi, p. 98)
L’unica precisazione che Epimeteo si sente di fare rispetto al contenuto di questo passo, che impressiona per chiarezza e disincanto, è la seguente: è vero che gli operai nel sistema capitalista “lavoravano molto”, ma è anche vero che scioperavano molto, a differenza che nel sistema sovietico, e scioperando rendevano dinamico il sistema di produzione e l’intera società; in tal modo sembra uscire confermata l’impressione che la classe operaia, anche quando con lo sciopero rivela la sua natura politica di “rifiuto del lavoro”, è pur sempre funzionalizzata allo sviluppo del capitale e non sembra in grado di uscire da un ruolo in ultima analisi subalterno. Solo il “farsi partito” della classe poteva garantire la possibilità di quel salto, a condizione che il partito avesse consapevolezza di sé come di un’aristocrazia del politico e sapesse far ingranare la propria autonomia con l’autonomia operaia come motore di sviluppo “dentro e contro il capitale” attraverso una serie di istituzioni di mediazione: questo poteva essere il progetto della Nep di Lenin. Ma tutto ciò era troppo complesso e soprattutto, oltre che una cultura politica adeguata, esigeva tempo, molto tempo, mentre dopo la vittoria della rivoluzione si pensava di essere ormai entrati nel tempo apocalittico della fine, in quel breve periodo di realizzazione del socialismo che precedeva l’ingresso nell’utopia del comunismo. La “lunga durata” era un criterio del pensare e dell’esperire politico estraneo a chi viveva nell’entusiasmo dell’attualità del Regno della giustizia. Così, dopo poco più di settant’anni dal 1917, un periodo breve se parametrato sulla “lunga durata” dei processi storici (l’impero britannico è durato quasi tre secoli), “l’esperimento precipitò dall’albero rinsecchito dell’utopia del comunismo davanti agli occhi stupiti del mondo intero. (…) Il fallimento appariva totale.” (Ivi, p. 33)
    Tuttavia, se interpretato alla luce della storia della modernità europea come compimento del messianesimo, allora il comunismo sovietico appare come l’ultimo bagliore politico in un continente che dal 1945 conosceva la morte politica, la fine del suo ruolo sulla scena della Weltpolitik, quel teatro dell’agire politico in cui non si possono recitare farse. Dunque, non possiamo che far nostro quell’inquadramento della vicenda dell’”esperimento profano” nella storia di Europa che Tronti ha delineato nel già citato saggio su Rinascita, in cui veniva anche formulata una prognosi sul futuro dell’unità europea che purtroppo si è rivelata drammaticamente esatta:
“La finis Europae, iniziatasi con il disgregarsi dell’assetto imperiale austro-ungarico, si conclude con la disgregazione dell’assetto imperiale socialista-sovietico. Ci sono volute due guerre mondiali, una guerra fredda e una pace dei trent’anni: dopo, cioè ora, non ci sarà più idea d’Europa, Kultur, civiltà europea, ma solo civilasation, un impasto cosmopolita di comportamenti correnti senza più un sentire comune. Ha vinto Heinrich contro Thomas Mann, il cittadino europeo contro l’uomo europeo. E infatti si farà l’unione europea esattamente quando non ci sarà più l’idea d’Europa.”
      L’”antropologia culturale” dell’”uomo della moneta”: il regno della sovrabbondanza, homo sacer versus homo faber
Dopo aver preso in considerazione, nella seconda parte di questo testo, la sorte degli sconfitti nello scontro escatologico che si è dispiegato nella seconda metà del Novecento, quella “guerra fredda” che ha portato a compimento la Weltbürgerkrieg che aveva preso avvio nel 1914, resta ora da prendere in esame brevemente la natura e i caratteri salienti della potenza vincitrice, un tema rispetto al quale i testi della Di Leo offrono numerosi spunti di riflessione e di approfondimento.
    In primo luogo l’autrice mette in evidenza le differenze tra il modello europeo quello e americano di relazione tra “uomini della moneta” e “uomini dei libri”. Mentre in Europa si è sviluppata, come si è visto in precedenza, la figura dell’intellettuale critico nei confronti del potere e della società nel suo complesso, un tipo di intellettuale che nell’Ottocento ha tradito la sua classe di origine, la borghesia, per svolgere il ruolo di “filosofo-re” nel rapporto con l’”universo del lavoro”, in America questa figura, come vedremo meglio nel seguito, è sostanzialmente mancata:
“L’egemonia dell’uomo della moneta porta con sé l’accettazione dello stato di natura e riguarda in gran misura una storia non europea. È un fatto che il suo locus privilegiato è oltre Atlantico, dove l’uomo della moneta è potuto nascere e crescere e maturare in una terra dove l’esistenza stessa di filosofi-re è stata rinnegata come una peculiarità europea, dove il solo libro osannato è il Libro con la maiuscola, quello che racconta della creazione del mondo in sette giorni e che a cercarli ha sempre i versetti adatti alle azioni dell’uomo della moneta.” (L’età della moneta, p. 155)
    Ma soprattutto, secondo la Di Leo, tra Europa e America vi è una differenza decisiva che riguarda il “primato della politica” vigente storicamente nella prima e il “primato dell’economia” che invece domina nel modello americano:
“Il legame capitalismo-democrazia è dato per scontato negli Stati Uniti dove il primato dell’economia è stato un tutt’uno con la conquista stessa dell’indipendenza del paese. Invece in terra europea a lungo è durato il primato della politica, dapprima nella forma delle politiche di potenza degli imperi, degli Stati-nazione, poi in quella del nazionalismo militante, e poi ancora nell’esperimento sovietico e infine nella fase della socialdemocrazia.” (Cento anni dopo, p. 34)
    L’egemonia originaria del sistema economico ha portato con sé una secca subordinazione del sotto-sistema politico, anche perché negli USA è stato sostanzialmente assente quel movimento operaio organizzato in partiti e sindacati che in Europa ha costretto il governo del capitale a misurarsi con la necessità di una politica di confronto e di mediazione con tale soggetto, valorizzando così l’autonomia della politica e dell’amministrazione pubblica. Al contrario, negli USA:
“Quasi inesistente è l’intermediazione del ceto politico-burocratico. In confronto all’Europa, le élite economiche non hanno mai ceduto sul monopolio del loro comando. Non vi è mai stato un governo di compromesso con i rappresentanti dell’universo del lavoro, una qualche forma di socialdemocrazia d’ispirazione europea. La negazione dell’universo del lavoro lo rendeva impossibile. Forte è stata sempre la propensione a considerare nemico chiunque ne ipotizzasse l’esistenza come accadeva a qualche uomo dei libri, influenzato dalla cultura europea.” (L’età della moneta, p. 118)
    Tuttavia, la specificità dell’America come “locus privilegiato” dell’”uomo della moneta” è il tipo di uomo che là è germinato e cresciuto, fino a imporsi come modello antropologico dominante anche sul continente europeo (“Ci hanno colonizzato l’inconscio”, diceva degli americani uno dei due protagonisti, tedeschi, di un film di Wenders degli anni ’80). Di quell’ideal-tipo umano la Di Leo tratteggia con molta efficacia i caratteri salienti, argomentando attorno alle parole-chiave di libertà, forza, consenso, scambio.
Non c’è bisogno di spendere parole per illustrare la rilevanza della prima di queste parole nella creazione del mito degli Stati Uniti come “terra della libertà”. La peculiarità americana di quel termine, tuttavia, consiste nel suo riferimento primario all’individuo autoreferenziale, definito dalla Di Leo in termini di “animale asociale” (“Nell’età della moneta l’uomo si riconosce primariamente nella condizione originaria di animale asociale.” Ivi, p. 176), che si differenzia nettamente da quella tradizione europea del “soggetto” come ineludibilmente coinvolto nella relazione con l’”altro”: “L’identità europea si staglia nella sua diversità proprio per l’uscita da sé dell’uomo del libro, per l’interesse verso gli altri da sé.” (Ivi, p. 159). Su questa base si costituisce un’altra differenza tra il mondo europeo e quello americano: mentre in Europa, lungo un percorso secolare, la forza è stata requisita nel “monopolio della violenza legittima” esercitato dall’unità politica statuale, in America, anche a causa dell’assenza dell’istituzione-Stato, nella genesi della società dell’”uomo della moneta” si è costituita una stretta connessione tra libertà individuale e diritto all’uso della forza, una correlazione che secondo la Di Leo costituisce addirittura “una teologia politica identificativa del paese”:
    “La disponibilità a difendere la propria libertà con la propria forza è considerata naturale all’uomo nel confronto con l’altro da sé. A spiegarlo vi sono gli intellettuali con le loro teorie, a dimostrarlo i politici con le loro azioni. Nel tempo è divenuta una teologia politica identificativa del paese. E la storia racconta come la politica, l’arte di far stare insieme gli uomini, ha assunto le forme che gli uomini della moneta sono stati abili a usare dapprima scegliendo l’arma della forza e poi quella dell’acquisizione del consenso.” (Ivi, p. 113)
“Nella sua essenza il focus sulla forza equivale al dominio assoluto come motore primo nei rapporti tra gli uomini, a prescindere dalla specifica alimentazione del motore, che sia la violenza fisica del passato o la convenienza al reciproco consenso.” (Ivi, p. 140)
    Ma il cuore di questa antropologia della libertà che si basa sulla forza, della violenza fisica e/o del consenso, è lo scambio, anche quando non avviene in condizioni di parità, perché è lo scambio l’elemento di coesione sociale, dal momento che anche lo scambio ineguale ha comunque il consenso di chi si trova in posizione di svantaggio:
“Il pilastro dello stato di natura ha il suo simbolo ideale nello scambio dove il debole accetta le condizioni del forte, in economia, in politica, nel sociale: c’è chi ha meno dalla natura, ha minori capacità, iniziative e dunque accetta l’altro da sé nel suo aver avuto di più, di capacità, di iniziative cui reagire semplicemente accettandole.” (Cento dopo, pp. 112 – 113)
    Lo scambio naturalmente si attua secondo le modalità classiche di una società capitalista così come si è costituita innanzitutto in Europa a partire dal XVIII secolo, ossia consiste in un “dare per avere”, dare lavoro per avere reddito, oppure dare un posto di lavoro per avere forza-lavoro disponibile per valorizzare il capitale, oppure dare denaro per avere ancora più denaro e dunque più potere. Lo specifico del modello americano di capitalismo però consiste nel “principio di accettazione” (ivi, p. 112) che lo informa: mentre in Europa non solo lo scambio ha generato conflitto, ma ha trovato “uomini dei libri” che ne hanno denunciato la profonda “ingiustizia” e quindi hanno fornito le “armi della critica” agli “uomini del lavoro” nella loro lotta di classe contro gli “uomini della moneta”, nel Nuovo Mondo il conflitto non ha mai superato la soglia dello scontro magari endemico ma sempre di breve durata, proprio perché la lotta di classe veniva percepita come una violazione della “legge di natura” del “principio di accettazione”:
“La scelta dell’accettazione è la novità che rompe con l’esperienza europea, persino troppo ricca di rifiuti dello status quo, di lotte contro, di cambiamenti. Accettare l’uomo così come la natura l’ha fatto significa accettare l’immutabilità del suo essere e dunque l’esistenza di individui forti o deboli, dominatori o dominati. Significa che i forti, i ricchi i dominatori agiscono in piena legittimità nel difendere il proprio status quo. La novità consiste nel far valutare naturale quello status quo ai deboli ai poveri, ai dominati.” (L’età della moneta, p. 155)
    In questa dinamica di legittimazione dello status quo come stato di natura, decisivo in America è stato il ruolo degli intellettuali, anche di intellettuali europei là emigrati durante gli anni dei “totalitarismi”, da Popper a von Hayek: secondo la Di Leo, nella società americana l’intellettuale vive una condizione di massima libertà “a una sola condizione: quella di non sognare di poter essere il re-filosofo del suo paese”. (L’esperimento profano, p. 138) Di conseguenza, la posizione degli intellettuali è di sostanziale subordinazione al potere economico, nella modalità del rapporto tra committente ed esecutore (vedi ivi p. 139); nello stesso tempo però, questa posizione non è vissuta come tale, perché in quel paese gli “uomini dei libri”, al di là di tutte le posizioni critiche che possono assumere, si sentono sostanzialmente integrati e non subalterni nella società in cui vivono: “(…) l’intellettuale americano ama la sua patria così com’è, e dunque è una ben differente creatura se messa a confronto con l’intellettuale non solo europeo, ma anche con gli intellettuali della gran parte dei paesi.” (Ivi, p. 141) Dunque, l’intellettuale americano si sente innanzitutto “americano” e solo in subordine “intellettuale”, ma ciò significa che la società degli “uomini della moneta” in America non è basata solo sull’individualismo, ma anche su una forte dose di nazionalismo: del resto questo non è che l’espressione collettiva del narcisismo di quello. Anche il sistema politico americano ha finito, secondo la Di Leo, per essere segnato in profondità dalla struttura di base della società, quella dello scambio, per cui “nella moderna e democratica America del Nord il suffragio universale, da sempre esistente, ha prodotto un vigoroso sviluppo del voto di scambio, a lungo gestito dalle varie mafie etniche nelle varie località.” (Cento anni dopo, p. 30)
Come si sarà osservato, in questa delineazione dell’antropologia dell’individuo americano ricorre spesso l’espressione “stato di natura”, come se negli USA si fosse prodotta una sorta di regressione all’hobbesiano bellum omnium erga omnes e così è infatti, secondo l’interpretazione della Di Leo:
    “Lo stato di natura, ripristinato nell’età della moneta, legittima il ricorso alla forza-potere, per così tanto tempo considerato inviso alla condizione umana. Alla sua antica delegittimazione da parte dei filosofi-re si è reagito innalzandolo a fede, una fede non ispirata a principi etici o a promesse politiche ma alla categoria dell’interesse economico. È una fede per cui la condizione umana, basata sullo stato di natura, si realizza al meglio nell’atto dello scambio, nel dare e nell’avere ciò che si vuole, vale a dire ciò che si può volere.” (L’età della moneta, p. 171)
A questo riguardo si possono sviluppare due osservazioni. La prima riguarda la differenza tra questo modello di bellum omnium erga omnes rispetto allo “stato di natura” così come è stato delineato da Hobbes in Europa nel XVII secolo, nel pieno delle guerre di religione. Nel ripristinato “stato di natura” dell’”età della moneta” non si dà un pactum subiectionis collettivo che dia luogo all’emergere di un’istanza sovrana che metta fine alla guerra d tutti contro tutti, quanto piuttosto si assiste ad una molteplicità di pacta subiectionis individualizzati, in cui il più debole si sottomette al più forte e accetta questa subordinazione perché spera di potersene liberare attraverso un “percorso di carriera”. Quel “rovesciamento del rapporto di potere”, che era stato perseguito collettivamente in termini di classe e di lotta di classe, si individualizza qui nel mito del cosiddetto “ascensore sociale” attraverso il quale chi si trova in una posizione di subordinazione oggi spera di conquistare domani una posizione di predominio. Detto con le parole della Di Leo: “La fede nel rovesciamento dei ruoli sociali – oggi uomo del lavoro, domani imprenditore – è il principio base dell’equilibrio politico del paese.” (Ivi, p. 79) Perciò, al di sotto dell’apparente normalizzazione dei rapporti tra le classi, si scatena una conflittualità endemica a livello sociale nei rapporti inter-individuali nella famosa “competizione”/”competitività”/”meritocrazia”, dalla quale di norma è escluso l’utilizzo della violenza fisica del “leone” (salvo eccezioni), mentre è assolutamente richiesta l’astuzia e la perfidia della “volpe”: la fiducia reciproca diventa un bene raro e, come già sapeva l’Ulrich di Musil, si percepisce quotidianamente “la violenza nebulizzata nell’aria”. Perciò, riassumendo con le parole della Di Leo: “I caratteri del tempo nuovo sono la ricomparsa dello stato di natura, la preminenza dello scambio su qualsiasi altra attività umana, la liceità di un orientamento homo homini lupus. Una liceità senza all’orizzonte uno stato leviatano.” (Cento anni dopo, p. 115)
    La seconda osservazione prende le mosse dal fatto che la Di Leo connoti quell’adeguazione universale allo stato di natura come una “fede”. Con questa interpretazione Epimeteo concorda pienamente, perché il ricorso a quel termine indica un sentiero che può condurre in profondità nell’interrogazione sulla genesi del radicale individualismo americano. Come si è già argomentato in altri saggi pubblicati in questo sito, secondo Epimeteo tale genesi va rintracciata nella scissione tra confessio pubblica e fides privata interiore che si è determinata nello Stato basato sul cuius regio eius religio che aveva posto termine alle guerre di religione in Europa: quella privatizzazione della fides, incrociandosi con una teologia della rivelazione come ispirazione immediata dello Spirito che non necessitava più di alcuna mediazione ecclesiale, finiva per fornire un fornire un fondamento teologico potentissimo all’autoaffermazione del soggetto in quanto individuo autoreferenziale. Quando tale individuo, tra il XVII e il XVIII secolo, migra nelle colonie inglesi del Nord-America trova a sua disposizione una “terra vergine”, ossia assolutamente priva di strutture istituzionali con un radicamento storico, nella quale può socializzare  la sua identità di individuo autoreferenziale basata su una fede religiosa che non genera conflitto politico perché si radica in una appropriazione privata della terra che consente alla fede nell’individuo di trovare un radicamento anche nella materialità del possesso. Il “denominazionismo” religioso, ossia la pluralità delle fedi pubbliche unificate dal sentimento di vivere nella “Nuova Gerusalemme”, si interfaccia con la società del libero mercato e della libertà d’impresa, in cui la dinamica di competizione/competitività ha la sua fonte di legittimazione in quella Bewährung di matrice calvinista, già segnalata da Max Weber, in base alla quale il successo economico diviene una “conferma” della predestinazione alla salvezza. Se questa ipotesi interpretativa fosse valida, allora il consenso attorno al criterio meritocratico come elemento legittimo di gerarchizzazione sociale non si spiegherebbe come ripristino di uno stato di natura immutabile, ma come il compimento storico nel Nuovo Mondo di quel messianesimo individualizzato che ha avuto origine in Europa ma si è imposto socialmente nella terra dell’”uomo della moneta”. Del resto, la Di Leo è perfettamente consapevole della radice religiosa dell’individualismo americano quando usa l’espressione di “teologia politica di se stesso”, scrivendo che “nel presente si è affermata una nuova specie di rapporto dell’uomo con l’altro da sé. È un rapporto dove il suo carattere peculiare sta nella certezza di ciascuno di essere egli stesso principio e fine di ogni cosa, di essere la teologia politica di se stesso.” (Ivi, p. 99) Questo “se stesso”, però, è necessario ribadirlo, ha un fondamento religioso, o forse sarebbe meglio dire “sacrale”, come cercheremo di spiegare fra breve. Individuo, mercato, nazione dal “destino manifesto”, questi dunque i tre pilastri della religione americana, della società dell’”uomo della moneta”.
A questo punto, in sede di conclusione, è possibile riprendere la questione delle motivazioni che hanno condotto alla vittoria escatologica del “sacro esperimento” americano sull’”esperimento profano” sovietico, una vittoria escatologica perché, con il pieno dispiegamento a livello globale del “regno della sovrabbondanza”, il messianesimo, come fenomeno teologico-politico che ha informato di sé l’intera storia dell’Occidente, giunge a compimento.
    Dunque, qual è la ragione di fondo della sconfitta? A questo riguardo, giustamente la Di Leo individua il fattore decisivo nella “subalternità” dell’esperimento sovietico alla logica del nemico, una subalternità che derivava dall’aver scelto come terreno di scontro quello prediletto dal nemico, l’economia:
“Il primo errore di chi ha perso è stato combattere sullo stesso terreno degli avversari, il terreno dell’economia”. (Cento anni dopo, p. 74) “L’obiettivo stava nell’industrializzazione del paese e nella parità strategico-militare; l’una serviva a dimostrare la capacità dell’operaio e l’altra a difenderlo dall’avversario. Ambedue erano all’interno della concezione del mondo dell’avversario, vale a dire erano immedesimati nell’economia con il suo primato sulla società. (…) in ciò risalta la subalternità all’universo che si dichiarava di voler superare.” (Ivi, p. 75)
    A questa subalternità, tuttavia, non sfuggiva nemmeno Lenin e a questo riguardo Epimeteo non può condividere il punto di vista della Di Leo: “Chi scrive vuole immaginarsi un’eccezione della persona di Lenin per quello che ha detto e fatto nei pochi anni in cui è stato il partito e il bolscevismo al potere.” (Ivi, p. 81) Infatti, se egli da un lato ha saputo tener ben ferma la decisione per l’autonomia del politico sul quale doveva muoversi il partito nel suo rapporto con la classe, d’altro canto però, sul piano culturale più complessivo, si collocava del tutto all’interno dell’orizzonte dell’antropologia marxiana del produttore. Da ciò, secondo Epimeteo derivano due osservazioni in sede di bilancio sul confronto tra “esperimento profano” e “sacro esperimento”: la prima riguarda il fatto che, se l’orizzonte antropologico del movimento operaio nel suo complesso, in tutte le sue varianti (anarchia, socialdemocrazia e comunismo) era quello dell’homo faber per il quale la relazione sociale era in ultima analisi finalizzata all’”umanizzazione della natura”, allora l’esito economicistico di tutte quelle prospettive era inevitabile. La seconda conseguenza porta a rintracciare proprio sul terreno antropologico la ragione più profonda della vittoria del capitale: è l’antropologia dell’”uomo della moneta” che ha sconfitto l’antropologia dell’”operaio golem”. Infatti l’economicismo del capitale non è diretto in ultima analisi sul rapporto uomo/natura (basta osservare la catastrofe ecologica, vera o presunta, verso la quale lo sviluppo del capitale sta conducendo il pianeta), ma sulla sua autovalorizzazione autoreferenziale e in questa autovalorizzazione si dà certamente una reificazione dell’umano, la sua mercificazione, ma nello stesso tempo si offre all’individuo reificato un orizzonte sconfinato di possibilità all’interno del quale poter reificare i suoi desideri attraverso la mediazione della “moneta”, l’”equivalente generale” che costituisce la mediazione universale tra i bisogni, i desideri e la loro soddisfazione. L’individuo-golem costruito dal capitale non è l’individuo lavoratore, l’Arbeiter, è l’individuo consumatore che lavora per poter consumare e consuma per esprimere il proprio sé. Tutto ciò può certamente essere sottoposto alla critica che si muove a partire dalla categoria dell’”inautentico”, ma bisogna fare attenzione a un fenomeno che ha acutamente segnalato Pierangelo Sequeri in un eccellente saggio già recensito da Epimeteo, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé. Si tratta di ciò che il teologo milanese ha definito con l’espressione di “ambivalenza del sacro” (si veda l’intero capitolo sesto, titolato L’età secolare esposta al sacro), un’ambivalenza che consiste nel fatto che “il sacro non è il puro opposto del profano e non va semplicemente risolto nell’ambito del divino” (op. cit., p. 133); da ciò deriva la “capacità dell’ambivalenza del sacro di convivere – e di pervertirsi – con la secolarizzazione e con l’irreligione, e persino con la profanazione.” (ivi, p. 134). È alla luce di questa “ambivalenza del sacro” che deve essere illuminato il fenomeno del feticismo della merce, che non consiste in altro che in una sacralizzazione, che nell’ultimo capitalismo si configura come ritualità di massa quotidiana:
“Nella città-mercato, il sacro, senza mediazione ‘del dio’ affidabile, dilaga selvaggiamente fra gli idoli e attira devozioni da quattro soldi, genera perversione del pathos e corruzione del logos, nutre indiscriminatamente il nomos e l’anomia della città. Una giustizia senza affetti incoraggia affetti senza giustizia. L’ingiunzione del sacro è inaggirabile, nella religione come nell’irreligione.” (ivi, p. 137)
    Qui siamo veramente di fronte a quella che Benjamin ha definito “la religione del capitale”, senza tuttavia coglierne la valenza messianica, ed è questo il motivo più profondo per cui si può leggere l’intera vicenda messianica del capitalismo americano come “sacro esperimento” e il tipo umano da esso generato come homo sacer, ben oltre la figura dell’homo faber dell’”universo del lavoro”. Da questo punto di vista Epimeteo non può che condividere l’affermazione della Di Leo secondo la quale “l’uomo della moneta è antropologicamente oltre l’uomo economico” (L’età della moneta, p. 152), ossia oltre la categoria dell’”utile”. Nell’homo sacer creato dal capitale l’individuo si auto-sacrifica nel lavoro per potersi auto-sacralizzare narcisisticamente nel consumo della merce e nella relazione con gli altri vissuta come puro godimento: da ciò deriva l’immensa fascinazione che la “Città della Moneta” (Di Leo, L’età della moneta p. 175) è in grado di esercitare sull’individuo-massa. Il sacro, ossia il messianico in quanto regno della sovrabbondanza, finisce così per costituire la mediazione di senso tra individuo e sistema.
Una ipotesi che si può avanzare a questo punto riguarda il fatto che la “teologia della tecnica” (un’espressione usata molto frequentemente dalla Di Leo) sia interamente da inscrivere in questo dispositivo di sacralizzazione feticistica dell’umano, del suo fare, del suo consumare e del suo godere, all’ombra della “pulsione di morte”; non dunque la tecnica come “compimento della metafisica dell’Occidente”, ma la tecnica come compimento dell’immanentizzazione del “regno della sovrabbondanza”, innanzitutto in quanto tecnica finanziaria algoritmica della “razionalità formale del calcolo del capitale” (Weber).

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