Materiali di teologia politica dell'Europa e contributi al realismo politico

L'Europa si definisce dall'interno con le grandi correnti che non cessano di attraversarla e che la percorrono da lunghissimi tempi (Lucien Febvre)

Messianesimo e immanentizzazione dell’ eone cristiano
Ricerche, 17 ottobre 2018

1a. Il profetismo ebraico a fondamento dell’idea di teodicea aveva generato la speranza di salvezza dall’imperfezione, dalla sofferenza e dall’ingiustizia. In Occidente questo impulso aveva assunto una forma specifica di messianesimo. Con la Riforma la forza messianica avrebbe fatto precipitare i presupposti di crisi insiti nella tarda scolastica in una radicale guerra civile, in un dualismo strutturale irrimediabile. Una tale rottura dell’unità istituzionale e spaziale dell’orbe cristiano non solo epocale, ma ontologica aveva fatto sì che la modernità sorgesse sotto il segno di una guerra civile internazionale dai tratti messianici, di cui l’eccezione ne sarebbe stato il carattere peculiare. L’empito escatologico, pur rovesciandosi sistematicamente in un processo di razionalizzazione, avrebbe reso le condizioni strutturali di vita e di organizzazione sociale/politica dei diversi orizzonti teologici e spaziali elementi permanenti di conflittualità.

    Il messianesimo, per cui lo spirito trascendeva ogni forma di esistenza e quindi anche la Chiesa quale istituzione sacramentale, era portatore di sconvolgimento e di guerra civile. L’attesa escatologica andava forzata dagli eletti per porre fine al travaglio storico e dare inizio alla “vera socialità” del Regno di Cristo. Se l’ottenimento della salvezza contemplava anche la possibilità di affrontare la morte, una guerra civile di radicalità estrema ne rappresentava la necessaria conseguenza e non consentiva alcuna forma di neutralizzazione o pacificazione. Messianica era la forza che doveva interrompere la continuità temporale; la fine portatrice di una posterità di redenzione e di giustizia non poteva che scardinare i tradizionali fondamenti dell’eone cristiano in cui ogni ordinamento era in relazione ad un personalismo trascendente e il principio di rappresentazione e di legittimità si reggevano sempre sull’ethos teologico politico di fede e fedeltà. Il messianesimo, quale elemento interno e costitutivo della tradizione rappresentata nel corpo sacramentale, aveva promosso il dilagare di istanze di potere dagli esiti deteologizzanti e deistituzionalizzanti ed era diventato promotore, seppur implicitamente, dell’Epochenschwelle della modernità. Ne avrebbe percorso anche carsicamente l’arco temporale in forme ed esiti differenti, ma la sua potenza soteriologica, inibitoria di ogni forma di governo della storia, sarebbe stata destinata a capovolgersi in un processo di immanentizzazione. Filosofie della storia o ideologie avrebbero riassorbito il futuro atteso nel “presente possibile” del potere effettuale, in cui tempo e storia si sarebbero ridotti ad un hic et nunc.
La concezione di un mondo come insieme di individuae substantiae e frutto dell’assoluta libertà divina che affondava le proprie radici nella tarda scolastica e nella disputa nominalistica aveva trovato un punto di svolta nell’antropologia della modernità, in un soggettivismo intrecciato di passioni e interessi. La prima modernità sorgeva nel segno di uno sconvolgimento teologico politico, della messa in discussione irresolubile della universalitas fidelium da parte delle guerre civili internazionali di religione portatrici dell’istanza messianica. Così non si affermava una “legittimità del Moderno”, bensì un’attuazione dell’istanza più radicale della tradizione ebraico-cristiana. Modernità e crisi endogena dell’eone cristiano erano aspetti che si richiamavano e che davano luogo ad una struttura storica di lungo periodo. “La guerra civile di religione scosse… la fiducia nella forza coesiva e pacificatrice propria dell’unico cristianesimo, e molti uomini presero a ricercare una nuova concezione fondamentale dell’uomo da sostituire a quella cristiana.” (R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Milano 1979, p. 26)  Il “tempo nuovo” poteva definirsi come Zeitalter der Krise: crisi quale caso normale della modernità che accompagnava alla sua fine lo stesso eone di cui era stata parte (da questo punto di vista il nichilismo imperante non può certo essere considerato un caso fortuito). Il sovrapporsi di confessio e fides, la lotta senza quartiere sulla rappresentazione dell’auctoritas e sull’interpretazione della veritas, la distruzione della stessa idea di unità cristiana avevano reso il conflitto elemento trascendentale dell’agire e la storia il regno delle possibilità.
    La risposta ad una tale condizione di assoluta contingenza, di smarrimento, di paura e scetticismo era rappresentata dal tentativo di imbrigliare la tensione messianica, di svuotarne l’empito escatologico. Scienza, filosofia e potere politico procedevano parallelamente; si imponeva una forma di riappropriazione di un proprio mondo e di una propria finitezza: un “razionalismo realista”, metafisico, segnato dal dubbio soggettivo. “Il momento metafisico, derivante dall’antica scolastica, è strettamente legato, nella storia europea, alla concezione cristiana della storia.” (O. Brunner, L’epoca delle ideologie. Inizio e fine, in idem, Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1970, p. 234) La metafisica non solo assumeva una funzione epistemologica determinante tramite la calcolabilità paradigmatica del “libro della natura” scritto da mano divina, ma riplasmava l’esistenza terrena tramite una meccanizzazione dell’immagine antropologica, incanalando gli istinti vitali in contrapposizione alla passionalità dell’opinio dominante. La razionalità metafisica si era sovrapposta alla dura realtà storica, alla tabula rasa provocata dall’incommensurabilità di una lotta teologico politica senza quartiere. Alla pura rivelazione trascendente, fonte di sconvolgimento, erano subentrate storicamente delle auctoritates che segneranno secoli e storia: sul piano politico il lungo e contrastato processo di formazione dello Stato, sul piano teologico una profonda ristrutturazione ecclesiologica dalle Chiese protestanti alla Controriforma cattolica (poggiata in gran parte sulla neoscolastica spagnola).
Se l’impeto messianico veniva bloccato a Westfalia, nel Nuovo Mondo si apriva lo spazio per il Regno di Dio; le varie sette predicavano un’interiorizzazione anti-istituzionale nel segno dell’autosufficienza, della libertà individuale e del diritto alla felicità e alla prosperità per la gloria di Dio. In Europa, viceversa, si aprivano due soluzioni in termini di ordinamento istituzionale: una, insulare, nel segno del “compimento della Riforma”, che trovava la sua più chiara espressione nel Leviathan; l’altra, continentale, che nella saldatura tra unità politica statale e unità teologica cattolica della confessio fidei istituiva una sovranità politica e giuridica: Hobbes e Suarez-Bellarmino . Questo comportava non solo una razionalizzazione del rapporto con il mondo, ma ancor più una vera e propria differenza antropologica di fondo, di comportamento e di orizzonti: un empirismo individualista, per cui importante non era più la sostanza, ma il funzionamento del meccanismo e l’idea istituzionale di un corpus mysticum che manteneva un ancoraggio metafisico-teista . E se è vero che una metafisica comportava sempre un’ontologia politica, la relazione meccanicismo-assolutismo in Descartes si poteva anche leggere in alternativa al meccanicismo utilitarista di Hobbes, pur mirando entrambe le opzioni ad un controllo del futuro. L’idea di una veritas e di un’unità politica rimanevano essenziali per trattenere l’eone dal precipitare in un eschaton autodistruttivo e mantenere una continuità sostanziale tra passato e futuro. Infatti una pax apparens statale, priva di un radicamento ontologico, non avrebbe potuto essere che molto fragile. Occorreva riconquistare una relazione positiva con il mondo, con un proprio mondo di fronte ad un orizzonte ormai radicalmente mutato, dove la stessa concezione dello spazio in cui vivere appariva del tutto stravolta in una globalità indefinita e in un cosmo infinito. La veritas ormai prendeva altre vie, passando attraverso la razionalità metafisica e scientifica e la fede diventava patrimonio esclusivo dei singoli o della comunità ecclesiale.
    2a. Lo scatenarsi di passioni teologico politiche distruttive e brutali, Il crollo di certezze e ancoraggi secolari, l’insignificanza del senso della storia per il singolo rendevano l’utilitarismo un elemento accettabile e un fattore di protezione sicura e necessaria, pur preservando la propria appartenenza ad una fede interiore. Ora l’antropologia dello “stato di natura”, connotato da Hobbes come una multitudo dispersa, misera e brutale, preda di impulsi egoistici, questo regno della sovranità individuale, in cui la libertà di ciascuno si sovrapponeva ad ogni tendenza associativa, aveva già scontato la condizione antropologica della guerra civile messianica, in cui il sacrificio della vita non appariva come il male assoluto in cambio della salvezza eterna. Sul presupposto di una neutralizzazione della veritas era possibile affrontare quella condizione di eguaglianza di passioni e desideri, in cui essenziale era assicurarsi un potere per soddisfare piaceri illimitati nel tempo. L’idea giusnaturalistico-scolastica di una originaria communitas teleologica sembrava svanita per sempre . “Oltre alla ragione di colui che detiene il potere sovrano, non esiste per gli uomini una ragione universale.” (Th. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, Torino 1959, p. 414)  Se dalla naturalità umana non traspariva alcun motivo unificante, ma ogni comportamento si riduceva ad un puro calcolo per un proprio utile, occorreva che al desiderio di potere si sovrapponesse l’ansia di protezione. Il conflitto scatenato dalla forza insopprimibile delle passioni poteva essere composto da un pactum subiectionis e da ciò che unificava le varie interpretazioni del cristianesimo: Gesù è il Cristo. Gli uomini andavano costretti e persuasi ad agire razionalmente per la loro stessa esistenza e a conformarsi ad un saldo ordinamento politico. Una tale obbedienza riconosceva le pulsioni utilitaristiche degli individui e non ne pregiudicava la possibilità di una salvezza eterna. Né Dio, né la Chiesa non solo non potevano governare direttamente, ma neppure era possibile vincolare strettamente fides e agire mondano; la ratio universalis non aveva una propria attualità nel mondo. La legittimità politica non infrangeva il dogma della Rivelazione, ma non ne era neppure sottomessa. La trascendenza veritativa si fondava sulla decisione sovrana e richiedeva una pubblica codificazione; se il diritto sottraeva la veritas alla passionalità, de-ontologizzandola, il carisma profetico, la relazione diretta con il Trascendente portava in sé il germe della guerra. La potentia absoluta si esercitava ormai tramite la potentia ordinata. Il Leviatano, che trascendeva ciò che era dato in natura, necessitava di rappresentazione, di una finzione che conferiva autorità; tuttavia era anche vulnerabile, era un deus mortalis per la sua stessa costituzione artificiale, per la sua tecnica disciplinare rispetto alla naturale incapacità degli uomini, ridotti ad individui atomizzati, di convivere. Un’unione artificiale li manteneva ontologicamente estranei. La tutela di un carattere antropologico troverà poi nella logica del mercato un suo pieno sviluppo. Principio d’ordine meccanicistico e volontarismo della rappresentazione si legavano, facendo corrispondere ai fatti delle norme. Le leggi della machina machinarum interessavano per la loro funzione, non per il loro contenuto; si poteva imporre la relazione protezione/obbedienza, ma non si potevano eliminare le convinzioni interiori, le passioni naturali, le dinamiche proprie dell’interesse dei singoli: la possibilità di un ritorno alla guerra civile . La modernità dell’idea di una society di individui verrà raccolta dal successivo liberalismo.
2b. Di fronte alla disgregazione dell’orbis europeo sarà la Riforma della Chiesa cattolica per un “Cristo glorioso e redentore” a ritenere ancora possibile unum corpus, unus populus, una societas christiana. Si tornava così con la dottrina della potestas indirecta ad elaborare in senso politico il concetto di corpus mysticum fondato sulla Rivelazione. Veniva stabilita un’analogia tra corpus politicum e dogma eucaristico (corpus Christi): un’incorporazione della potenza e dell’autorità del teologico. Questo corpo, strutturato politicamente e giuridicamente e il cui diritto in forma analogica era divino, esercitava il proprio potere all’interno della communitas universalis del corpus mysticum Christi, dell’unità e unicità dei fedeli. Secondo la corrente gesuitica egemone del cattolicesimo riformato (in particolare Suarez e Bellarmino) se Dio era causa proxima et universalis nel conferimento del potere, tuttavia non era causa immediata. In base allo jus naturae il popolo, non composto da singoli individui, bensì costituito in corpus politicum mysticum, era l’organismo detentore originario del potere, ma la sua incapacità di autogoverno rendeva necessaria e irrevocabile una translatio imperii alla persona pubblica repraesentata nel sovrano. Stato diventava sinonimo di sovranità regale. Si formava un’istituzione ex jure humanum ma procedente da Dio. Una tale istituzione che presupponeva una concezione organologica del corpus reipublicae mysticum (equiparato al corpus ecclesiae mysticum), ossia un corpo collettivo, vincolato al bonum commune e al principio essenziale della fides, aveva nel corpus mysticum del sovrano il vertice e la continuità istituzionale di un corpus repraesentatum, la cui dignitas, analogamente a quella papale, non moritur. La metafisica nell’istituzione assumeva la forma del diritto, lo jus esprimeva la volontà dell’auctoritas. Al sovrano, lex animata in terris, anima dello Stato era attribuita una duplice persona: una naturale e l’altra per grazia secondo l’imitatio Christi di due corpi e una persona . Il principio monarchico, organizzato razionalmente secondo il diritto romano, assumeva una valenza mistica . L’istituzione statale riportava a sé la ratio status e la plenitudo potestatis, tratti della summa potestas ecclesiae. Un’immagine teologico politica, una “riserva di senso” attribuiva legittimità e intenzionalità al meccanismo istituzionale di funzionamento di una tale communitas perfecta vel mystica che bloccava ogni radicalismo messianico, sospingendo la speranza escatologica nell’interiorità del credente.
    Lo svuotamento di verità secolari e l’emergere di “forze oscure” dell’esistenza umana dominate da un’irrazionalità violenta e da una volontà di potere che oltrepassava le stesse motivazioni religiose, per ridare ragione della rappresentazione del trascendente rendevano necessaria una rivalutazione dell’esistenza contro la opposta tendenza riformata. Così si spiegava il rinnovato accordo tra ambito teologico-politico e filosofico. All’adequatio rei/intellectus della metafisica, all’ordine razionale di una molteplicità dispersa corrispondeva la repraesentatio politica di una communitas/corpus. Non a caso Suarez, esponente di punta del tomismo gesuitico controriformista, nelle Disputationes Metaphysicae poteva sostenere che “la teologia divina e soprannaturale, pur basandosi su di una illuminazione divina e su principi rivelati da Dio, si compie in realtà tramite un discorso e un ragionamento umano, e per questo si giova anche di verità conosciute per luce naturale, servendosene- come di ministri e strumenti- per compiere i suoi discorsi e per illustrare le verità divine.” (F. Suarez, Disputazioni metafisiche, Milano 2007, p. 59) La certezza metafisica, l’ordine ontologico stabilito dalla ratio si svolgeva all’interno del principio teleologico-normativo di una costante ratio theologica, secondo cui la struttura ontologica compiuta del mondo era pre-compresa nella Rivelazione. La gloria divina si rappresentava nell’ordine dell’essere e questo finiva per riconoscere una propria rilevanza al mondo. A questa rappresentazione propriamente cattolica e barocca (per la tensione tra forma ed esistenza nella rappresentazione divina tramite il creato) , a questa “ratio essendi vel prima condicio totius existentiae” occorreva riportare ogni motivazione dell’agire. All’interno di una tale unitas ordinis, in cui l’universalità della ratio teologica presupponeva, ma non si sostituiva alla ratio humana, diventava concepibile la forma politica, una communitas soggetto del bene comune.
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